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Ravasi nella fucina linguistica di Paolo

Ravasi nella fucina linguistica di PaoloParmigianino, Conversione di San Paolo, 1527/1528 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Teologia e divulgazione Agápe, corpo pneumatico, svuotamento... Le epistole di Paolo lette al presente da Gianfranco Ravasi: «Ero un blasfemo, un persecutore e un violento», Cortina

Pubblicato 5 giorni faEdizione del 13 ottobre 2024

Cosa accadde davvero sulla strada polverosa di Damasco lo racconta l’evangelista Luca nel capitolo 9 degli Atti degli Apostoli. Un fiotto di luce che si fa largo tra i nembi, una voce mite e imperiosa: «Io sono Gesù, che tu perséguiti!». Sbalzati di sella i viaggiatori (probabilmente), occhi rigati di buio. Paolo stesso, però, nella Lettera ai Filippesi utilizza un verbo straordinariamente efficace per ricordare in prima persona l’assolutezza dell’esperienza (situabile cronologicamente tra il 33 e il 35 d.C.): katelémphthen – da katalambáno –, ossia «fui afferrato, ghermito, conquistato, impugnato» da Gesù. È la più nota «cristofania» della storia e S.E. Cardinale Gianfranco Ravasi ne ripercorre con vividezza i tratti salienti in Ero un blasfemo, un persecutore e un violento Biografia di Paolo (Raffaello Cortina Editore «Scienza e idee», pp. 208, € 19,00). L’obiettivo del volume è far scendere l’Apostolo par excellence «dalle pagine agiografiche o dai saggi rigorosamente esegetici (…) nel nostro presente secolarizzato», tenendo ferma la consapevolezza che egli resta «uno dei capisaldi della cultura occidentale, persino a livello di provocazione e di reazione». Insomma, che piaccia o no. Sì, perché Paolo – «presenza insonne» di ieri e di oggi – è stato al contempo amatissimo e osteggiato: «disangelista» secondo Friedrich Nietzsche, «Lenin del cristianesimo» a parere di Antonio Gramsci, «dolcissimo, terribile» stando a quanto dice Jacques Derrida (perché fu «decostruttore» di circoncisione e tallèd, del giudaismo tout court). Affrontare il fiume in piena della limacciosa bibliografia paolina è allora un lavoro per canoisti di professione.
Nato a Tarso in Cilicia, giudeo della Diaspora, cittadino romano, Paolo era stato educato al lavoro manuale ed era in particolare skenopoiós («tessitore di peli di capra per stoffe ruvide»). Si formò alla scuola del rabbì Gamaliel (rievoca questo rapporto un dramma di Franz Werfel, Paolo tra gli Ebrei, del 1926). Sappiamo dagli apocrifi Atti di Paolo e Tecla che era di bassa statura, calvo, naso pronunciato, abbastanza nerboruto, con le «gambe arcuate» e amabile nell’aspetto. Cosmopolita e «transfrontaliero», Paolo è un uomo di cultura («i troppi studi ti hanno dato al cervello», tuonerà Festo a Cesarea): cita i Fenomeni di Arato, un frammento di Epimenide di Creta, la Taide di Menandro. La sua fucina linguistica è stupefacente: da buon parlêtre, conferisce inedite colorazioni semantiche a parecchi vocaboli greci come pnéuma («spirito»), agápe («amore»), hamartía («peccato»), sotería («salvezza»). Conserviamo un corpus di tredici lettere, ma soltanto sette sono a lui attribuibili con certezza; le altre sei provengono dalla cosiddetta tradizione paolina, un ambiente in cui comunque la sua parola aveva attecchito con vigore.
Gli affondi critici di Ravasi si concentrano proprio sulla lettura ravvicinata e sull’interpretazione dell’epistolario. Come succede per la Prima Lettera ai Tessalonicesi, spedita da Corinto. È il «debutto» testuale del cristianesimo, redatto attorno al 50-51 d.C. (i Vangeli sono posteriori). Il clima a Tessalonica era stato rovente e una sommossa popolare aveva costretto Paolo alla fuga: nonostante ciò, la predicazione stava dando i suoi frutti. L’Apostolo risponde a una curiosità (apocalittica) dei confratelli: cosa accadrà nel momento della parousía a coloro che sono in vita? «I morti in Cristo risorgeranno. Poi noi, ancor vivi e superstiti, saremo rapiti insieme con loro nella morte per andare incontro al Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore». In questa missiva è sciorinata una teologia forse embrionale, ma già occhieggiante la dottrina della giustificazione per fede.
Con temperamento di termini e modalità sociali, Ravasi contestualizza anche le teorie paoline sul matrimonio e sulla vita consacrata che all’epoca si presentavano in tutta la loro carica innovativa: Paolo «riconosce che matrimonio e verginità sono entrambi “carismi”, cioè vocazioni di origine divina, ma la seconda è il segno dello stato ultimo dell’umanità quando, come anche Gesù aveva affermato, non ci saranno più legami limitati ma ci sarà un cuor solo e una vita sola in Dio». Sotto quest’ottica si comprende meglio il grande inno all’amore/carità (1Cor 13, 1-13) che è qui riproposto in una gradevole prosa ritmica: peraltro, l’autore sceglie significativamente di non tradurre la parola «agape», ovvero la completa offerta di sé: «Se pure parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, / e non avessi l’agape, / sarei un bronzo echeggiante o un cembalo tintinnante…».
Un altro tema interessante è quello legato alla differenza tra corpo psichico e corpo pneumatico (o spirituale) che presuppone di necessità la risurrezione della carne. Nella prospettiva paolina «il nostro essere individuale – chiosa Ravasi –, simbolicamente espresso nella corporeità (intesa sempre in senso biblico come espressione della realtà personale), sotto l’azione divina viene trasformato in una nuova creatura, immessa nell’eterno e nell’infinito». Il corpo pneumatico non coincide quindi con una forma ectoplasmatica, ma con un rivestimento del pnéuma, lo Spirito divino, che tramuterà il bruco transeunte in farfalla perenne. Nella Lettera ai Galati emerge poi il dissidio con Kefa (Pietro) riguardo alle norme rituali alimentari al cospetto di ebrei o pagani. Pur riconoscendo in lui la «colonna» della Chiesa, Paolo sceglie la via del confronto aperto, senza falsi pudori, e lascia così intendere che «obbedienza e libertà, indipendenza e comunione, non si escludono, quando chiara è la scala di valori in cui esse si esplicano». Persino in tal caso la modernità di Paolo appare sconcertante al nostro sguardo. Modernità che si ripresenta con maggiore forza nella Lettera ai Romani, vero e proprio capolavoro teologico, sintetizzato da Ravasi seguendo le «tre stelle nere e le quattro luminose nel cielo della storia»: sárx, hamartía e nómos da un lato; cháris, pístis, pnéuma e dikaiosýne dall’altro. È l’avventura cosmica della redenzione di Cristo che dalla caduta del peccato porta alla giustificazione per fede (qui delineata pienamente) e al riscatto finale dell’uomo.
La kénosis (lo «svuotamento» delle prerogative divine) di Gesù, l’epifania dell’iniquità e il katéchon che la tiene a bada, il matrimonio come sacramentum, mistero che indica il progetto di salvezza attuato. E ancora: la «spina nella carne», la forza nella debolezza («è, infatti, nel vuoto dell’umile riconoscimento della propria misera biografia che si insedia lo splendore dell’azione divina»). Sono concetti, immagini, espressioni paoline impossibili da rimuovere, tanto restano attaccate ai nostri saperi, alle nostre cognizioni e sensibilità. La stessa figura di Paolo, come si diceva, è passata – e non poteva essere altrimenti – costantemente al vaglio della contemporaneità: Michel Foucault ne ha rammentato la parresía (il coraggio della verità), Mario Luzi ne ha lodato il «fuoco di profezia». Felix Mendelssohn ne fece un’opera musicale, Pier Paolo Pasolini progettò addirittura un film. Ma ciò che più resta è forse la sua periautologia, l’«io in Cristo», la «radicale metamorfosi da persecutore ad apostolo» come testimonianza. Ravasi fa giustamente leva sul «modo di esistere» additato da Paolo (un’imitatio Christi, «fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo»): le sue epistole sono dunque un «intreccio tra parola e vita; non sono, come spesso erroneamente si crede, freddi trattati teologici». Almeno fino al momento in cui «Dio sarà tutto in tutti».

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