Guardare il mondo da un lembo estremo è spesso illuminante per tutti. Succede anche piazzandosi in un batey a cento chilometri da Santo Domingo, uno di quegli insediamenti nati con le piantagioni di canna da zucchero, vestigia dell’ultimo boom novecentesco e lunga eredità della colonia. Da laggiù si può osservare il mondo, privilegiando magari gli occhi delle donne che ci vivono. E così ha fatto Raúl Zecca Castel, antropologo, assegnista di ricerca all’Università Milano-Bicocca che ha pubblicato Mastico y trago. Donne, famiglia e amore in un batey dominicano (Editpress).

Oltre che un lavoro di ricerca curioso e accurato, è anche il racconto di un ritorno: nel 2015 Raúl Zecca Castel già aveva dato alle stampe la sua indagine sui lavoratori haitiani, manodopera ambita e bersaglio razziale che va e viene da una parte all’altra del confine che divide in due l’isola di Hispaniola (Come schiavi in libertà, Edizioni Arcoiris). «Il mio interesse per i Caraibi, e per quell’isola in particolare, sta proprio in quella fabbrica di modernità che rappresentano – dice – È la prima isola toccata dai conquistatori, è l’approdo del primo ‘carico’ di schiavi africani e il primo posto dove si esperimenta il sistema produttivo delle piantagioni». Insomma, una sorta di matrice del moderno sviluppo capitalistico europeo.

Questa volta Raúl Zecca Castel si concentra sulle donne del batey, le loro biografie, la loro vita quotidiana, le relazioni sociali e i loro desideri. Ognuna di quelle donne sembra transitare su tanti confini contemporaneamente, tra legalità e clandestinità, rispettabilità e oltraggio, fatica e sogni. Sono vittime e predatrici, salvate e sommerse. Il ricercatore si muove con grande sensibilità, in ascolto tra mille dubbi e una forte empatia, mettendo alla prova prima di tutto la sua ferramenta di antropologo e le trappole in cui lo può incastrare. Il ritratto complesso e contraddittorio emerge dalla sua capacità di incrociare le dimensioni di genere, di classe e razziali e soprattutto di riconoscere le soggettività irriducibili che ha di fronte.

Già il battesimo nella Storia di questa piccola comunità de Las Pajas ha in sé ciò che basta per intuire il presente. L’ultimo giorno di ottobre del 1916 «Juan Santoni e Gaetán Bucher, presidente e tesoriere della Macorís Sugar Company (USA), firmarono un contratto d’affitto per 6 mila ettari di terreno posti alla biforcazione dei fiumi Casuí e Higuamo – spiega Raúl Zecca Castel – Si racconta fossero terreni fino ad allora dedicati alla coltivazione di cereali, soprattutto riso, che, a fine stagione, restavano coperti da grandi quantità di paglia, da qui il nome Las Pajas».

E’ trascorso più di un secolo: invasioni e dittature, industrie e oligarchi, flussi di haitiani ed espulsioni brutali, finché la zuccherocrazia non si è convertita in un paradiso del turismo di massa. Tutti, uomini ed economie, sono finiti stravolti, a cominciare dai bateyes, così come l’identità e il senso sociale e individuale dei loro abitanti. La comunità della piantagione è diventata un non-luogo o un luogo di transito, anonimo ed emaciato, dove al massimo possono precipitare, come nel caso de Las Pajas, cinque chiese (di cui quattro evangeliche), una discoteca e un gioco del lotto. Il massimo della transizione nel nuovo secolo.
Eppure, ci racconta Raúl Zecca Castel, proprio in questa piega del mondo globale, la modernità pulsa paradossale nei codici sociali e finisce per interrogare noi, nuovamente. Così, della maschilità frantumata, si vedono solo le patetiche gerarchie, misogine e omofobe, che hanno bisogno di almeno 200 vocaboli per mappare gli uomini dal più maricón al tíguere, tracce violente di un patriarcato che sembra un fantasma di cemento armato. La folla di donne sopravvive a tutto, alla povertà senza fondo, ai mille lavori, alla violenza dei loro uomini, al discredito e alle aspettative sociali, al razzismo pervicace; tirano su figli, avuti quasi sempre da uomini diversi, diventando matriarche alla guida di famiglie che sono sì matrifocali ma comunque sepolte nel pantano patriarcale. Queste donne si fanno largo con ogni mezzo, spinte da un incontenibile desiderio di rivalsa, anche chapeando, cioè rastrellando agli uomini che incontrano, meglio se stranieri, tutto ciò che possa essere utile, denaro, favori, beni materiali e magari un passaporto.

«Mastico y trago», ripete Liliane, una delle donne de Las Pajas, mastico e ingoio, e in questa digestione di sventure e di opportunità, lei e le altre reinventano i fili della loro comunità, la tengono a galla o le danno un senso di uscita dalla fatalità. Un’invenzione persino letterale: «Ad un certo punto mi sono reso conto che Liliane e le altre usano intere strofe delle canzoni più in voga – racconta Raúl Zecca Castel – In questo caso, ripetono e capovolgono il senso di una canzone de La Insuperable, una delle cantanti più famose del ‘genere urbano’, tra rap e reggaeton: nella sua canzone si vanta di quello che ha, una vita agiata e persino le sue nuove natiche, grazie a un uomo che le paga tutto e al quale lei dice sprezzante: mastica e ingoia. Le donne de Las Pajas prendono quel verso e lo girano in prima persona, parlando di sé stesse, per dire che loro possono sopportare e resistere».

Chi sono allora le donne de Las Pajas? Saremmo fuori pista se cercassimo di incasellare queste donne in un profilo terzomondista, emarginato e sfruttato. Raúl Zecca Castel se ne tiene alla larga per lasciare spazio alla dignità e all’unicità delle singole biografie, provando invece a tener ferma la barra su quei Caraibi tutt’altro che periferia esotica dell’Occidente, ma luogo che continua ad anticipare contemporaneità, crogiolo di tanti «universi culturali possibili, continuamente impegnati in un dialogo utopico di rimandi e fughe, lungo un processo di decostruzione di significati senza fine. Quelle vite in realtà servono per provare a capire qualcosa di più delle nostre vite, di cosa facciamo, di chi siamo noi».