Internazionale

Rasmussen: «Interveniamo solo se lo chiede Baghdad»

Rasmussen: «Interveniamo solo se lo chiede Baghdad»Peshmerga curdi nel villaggio di Buyuk Yeniga, nord Iraq – Reuters

Iraq Londra sul piede di guerra scarica il governo di Assad e valuta raid e invio di truppe a sostegno dei curdi. Dall’Occidente nessuna prospettiva: il timore è una soluzione «alla libica»

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 5 settembre 2014

La Nato potrebbe intervenire in Iraq, se Baghdad lo chiederà: «Non abbiamo ricevuto nessuna chiamata dall’Iraq. Sono certo che se il governo muovesse richiesta di assistenza, sarebbe presa seriamente in considerazione dagli alleati», ha detto ieri il segretario generale Rasmussen dal Galles, dove i membri del Patto atlantico stanno discutendo delle svariate crisi in corso.

Poco prima un editoriale pubblicato sul Times of London e firmato dal premier britannico Cameron – da settimane attivissimo sul fronte anti-Isis – e il presidente Usa Obama lanciava all’Alleanza un chiaro appello al confronto con lo Stato Islamico.

I discorsi occidentali sono scevri di una reale analisi delle responsabilità del caos iracheno e siriano, ovvero le ragioni dell’anormale crescita dei gruppi jihadisti finanziati dai paesi del Golfo e radicati dalle politiche settarie imposte dall’invasione Usa. E sono scevri anche di una visione di lungo periodo: bombardare l’Isis in Iraq e in Siria a sostegno di quale autorità politica?

E forse il timore di Baghdad, che sta lavorando ad un governo maggiormente inclusivo quando sul terreno la guerra civile impazza (un’autobomba ha ucciso 12 persone ieri nel quartiere sciita Kadhamiya), è una “soluzione” alla libica: l’ultimo intervento atlantico sono stati i raid contro la Tripoli di Gheddafi, la distruzione delle istituzioni statali e l’armamento dei gruppi anti-rais, che hanno provocato sanguinarie lotte intestine tra tribù, islamisti e militari.

Sul tavolo resta l’opzione di una coalizione internazionale che argini l’avanzata di al-Baghdadi, ma – sottolinea Cameron – senza alcuna possibilità di coordinamento con il governo di Damasco: eventuali raid non avranno bisogno del consenso «dell’illegittimo governo» del presidente Assad – seppur da tre anni impegnato a combattere i gruppi islamisti – che la scorsa settimana aveva aperto alla cooperazione con l’Occidente. Si muove anche il segretario di Stato Usa Kerry che ha contattato Italia, Australia, Israele, Giordania, Qatar e Emirati Arabi per discutere sulle più efficaci modalità di confronto dell’Isis e le conseguenze della sua offensiva, dal rifornimento di armi alla consegna di aiuti umanitari ai civili.

Armi che arrivano già copiose nelle mani dei paesi del Golfo – in passato finanziatori indiretti dei gruppi islamisti, oggi considerati non più valido strumento contro i regimi sciiti di Damasco e Baghdad, ma minaccia agli equilibri regionali – e della regione autonoma del Kurdistan, secondo uno schema che sta allargando le divisioni settarie irachene. Lo stesso governo britannico si è detto pronto a partecipare ai bombardamenti e ad inviare forze militari per addestrare peshmerga e soldati governativi, all’interno di un’eventuale missione della Nato. Fin dai primi passi mossi dall’Isis in Iraq, Baghdad aveva inutilmente chiesto un intervento immediato contro i qaedisti che direttamente non è mai arrivato: le bombe sganciate dai jet militari Usa interessano le zone ufficiose di confine tra le aree occupate dall’Isis e il Kurdistan iracheno, rifornito di armi che l’esercito governativo non ha mai ricevuto.

Al contrario armamenti e veicoli militari di cui i jihadisti hanno fatto razzia nei primi due mesi di avanzata, presi dalle basi militari irachene abbandonate in fretta da un esercito allo sbando, sono brutalmente efficaci. Ieri Human Rights Watch ha denunciato nuovi casi di esecuzioni di massa, condotte a giugno nell’ex base Usa di Camp Speicher, presa durante l’assalto alla vicina città di Tikrit: almeno 770 le persone uccise dall’Isis, per lo più soldati iracheni sciiti catturati nell’offensiva.

L’unico a scampare a quell’orgia di violenza – per la quale le famiglie dei soldati scomparsi hanno occupato la sede del parlamento martedì – è stato Ali Hussein Khadim, militare di 23 anni: coperto di sangue, circondato da corpi senza vita, si è finto morto e dopo tre settimane in fuga è riuscito a tornare a casa e a raccontare la sua storia a Hrw. Una violenza che prosegue: ieri i jihadisti hanno catturato 50 residenti del villaggio di Tal Ali, provincia di Kirkuk, dopo che la comunità aveva reagito all’occupazione appiccando il fuoco a una postazione abbandonata dell’Isis.

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