Rapa Nui e il mito della crisi demografica
Materia oscura Secondo antropologi e scrittori, i nativi non seppero mantenere l’equilibrio dell’habitat e si condannarono all’ecocidio. Ma i nuovi studi dipingono un quadro ben diverso
Materia oscura Secondo antropologi e scrittori, i nativi non seppero mantenere l’equilibrio dell’habitat e si condannarono all’ecocidio. Ma i nuovi studi dipingono un quadro ben diverso
Sulla sperduta e misteriosa Rapa Nui – o «isola di Pasqua» come la denominarono i coloni europei – sono stati proiettati molti miti dell’uomo bianco. Le teorie sulla sua popolazione nativa si sono sbizzarrite. Quella più fantasiosa è dello scrittore svizzero Erich von Daniken: secondo lui un’astronave aliena si sarebbe arenata sull’isola assai prima che ci attraccassero le fregate di Jacob Roggeveen, primo europeo a sbarcare a Rapa Nui nella domenica di Pasqua (da cui il nome) del 1722. L’avanzata civiltà extraterrestre avrebbe quindi istruito i nativi alla costruzione dei moai, i celebri monoliti a forma di testa umana che da sempre contraddistinguono l’isola.
La teoria non aveva prove scientifiche ma rispondeva a un pregiudizio neocoloniale, come ha ben evidenziato il divulgatore della biologia Stefano Dalla Casa: «gli indigeni, qualunque essi fossero non potevano essere stati in grado di fare quei monumenti». Sebbene oggi nessuno prenda sul serio quella bislacca storiella, anche le teorie più accreditate sulla popolazione originaria di Rapa Nui sono piene di stereotipi. L’antropologo e geografo Jared Diamond nel celebre saggio Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi, 2005) spiega che uno o due secoli prima dell’arrivo degli europei la popolazione dell’isola era precipitata da 15 mila a soli tremila abitanti. A causare la quasi-estinzione fu lo sfruttamento eccessivo delle foreste da parte degli indigeni, che portò a guerre intestine, carestie e cannibalismo. Quando arrivarono gli europei, dunque, l’ecocidio era già a buon punto. Certo, il vaiolo e la schiavitù dei colonizzatori ridussero la popolazione di un ulteriore 30%, ma in fondo gli indigeni si erano quasi suicidati da soli.
La morale della favola – una civiltà che abusa dell’ambiente è destinata al disastro – è dunque progressista solo in apparenza. Perché quella di Diamond sembra essere davvero una favola confutata negli ultimi anni da numerosi studi. L’ultimo è contenuto nel numero di ieri della rivista Nature ed è firmato da un’equipe di genetisti guidati da Victor Moreno-Mayar dell’Università di Copenhagen.
I ricercatori hanno analizzato il Dna di quindici abitanti di Rapa Nui vissuti tra il XVII e il XX secolo, i cui resti sono conservati al Museo nazionale di storia naturale di Parigi. La variabilità genetica porta le tracce dell’evoluzione della popolazione. Infatti, quando una popolazione aumenta di numero, cresce anche la diversità genetica. Una rapida contrazione, invece, rende più geneticamente omogenee le generazioni successive. Studiando i Dna di Rapa Nui emerge un quadro diverso da quello proposto da Diamond: in quei geni non c’è traccia di crisi demografica. Al contrario, la popolazione isolana sembra essere cresciuta lentamente ma ininterrottamente da quando, nel tredicesimo secolo, i polinesiani iniziarono ad abitare l’isola. A far fuori le foreste locali non furono i taglialegna, ma i ratti.
In più, gli incroci genetici suggeriscono che i nativi avessero già raggiunto le coste sudamericane, a quasi quattromila chilometri di distanza, tre o quattro secoli prima dell’arrivo degli europei sull’isola: così si spiegherebbe la presenza di geni caratteristici dei nativi americani nei Dna più vecchi degli abitanti. Nessun ecocidio per eccesso di avidità dunque: a Rapa Nui viveva una comunità piccola e lontana da tutto, ma capace di resistere ai mutamenti ambientali, realizzare opere artistiche ancora oggi notevolissime e di lanciarsi in ardite imprese marinare. La lezione di cui fare tesoro è questa.
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