Ramuz, un intagliatore biblico sullo sfondo del Vaud
Letteratura svizzera La sua visceralità bene incisa è ciò che lo rende vivo e interessante
Letteratura svizzera La sua visceralità bene incisa è ciò che lo rende vivo e interessante
Toccò ad Alberto Savinio voltare in versi liberi gli ottonari francesi del libretto dell’Histoire du Soldat di Strawinsky per la prima italiana all’Odescalchi di Roma, 28 aprile 1925, e a Savinio toccò pure sdoppiarsi in recensore del libretto di Charles-Ferdinand Ramuz contro cui firmò la violenta stroncatura poi raccolta in Scatola sonora (Einaudi 1977): «A chi conosce il nome di codesto scrittore e la sua opera, ogni commento riuscirebbe superfluo (…): in nessun altro svizzero, artista o non artista, le virtù casearie della sua patria sono tanto spiccate quanto in Charles Ramuz. La dolcezza in lui confina con lo schifo, l’evangelismo tocca alla nausea, il culto dell’innocente natura provoca tormentosi torcimenti di budella». Mai recensione fu più cieca e peraltro mai scrittore avrebbe potuto essere più remoto dalla leggerezza mercuriale di Alberto Savinio. E infatti, per proverbio, Ramuz (1878-1947) è l’uomo residenziale, radicato nel natìo paesaggio del Vaud, l’uomo dell’impatto primordiale con la natura e del legame con i suoi eventi essenziali, dell’incontro con oggetti sempre tridimensionali, se un grande poeta che gli fu amico, Gustave Roud, celebrandolo in punto di morte (ora nel collettivo Ramuz vu par ses amis, L’Age d’Homme 1989) così poteva smentire Savinio: «Ramuz vede. In lui vedere è un atto istantaneo; è un incontro inopinato fra il poeta e le cose di fronte a lui che sentono tale accoglienza e gli rispondono di cuore».
Ramuz non è affatto un nome ignoto alla cultura letteraria italiana e della sua vastissima produzione, se rimane inedito il monumentale e fondamentale Journal degno per certi versi di quello di Amiel, a lungo sono stati presenti nei nostri cataloghi i titoli centrali della sua narrativa, da Aline (Jaka Book 1979) a Derborence (ivi 1980) a Paura in montagna (Casagrande 1980), unitamente a un capitolo di meditazione, che è un attestato di umanesimo e insieme la sua dichiarazione di poetica, dal titolo Taille de l’homme (’33), pubblicato nel ’47 dalle edizioni Comunità di Adriano Olivetti in una splendida versione di Franco Fortini.
Viene oggi proposto uno dei romanzi più suoi, e per così dire più segreti della sua produzione, frutto di una tormentata redazione, Adamo ed Eva (prefazione di Daniele Maggetti, traduzione di Paolo Vettore, Armando Dadò editore, pp. 157, s.i.p.), che esce in originale nel ’32 ed è perciò fra i primi testi ultimati dallo scrittore vodese a «La Muette» di Pully, nei pressi di Losanna, il villino acquistato per la sua vecchiaia laboriosa e dove infatti si sarebbe spento quindici anni dopo. Prima che a un romanzo vero e proprio, Adamo ed Eva somiglia a una sotie, il genere drammatico-satirico di origine tardorinascimentale che ha bisogno per prodursi di un modello ben riconoscibile: vi aveva già fatto ricorso un suo vecchio amico quale André Gide per Le caves du Vaticain (’14), ma Ramuz rilancia su tutt’altra via spingendo sul pedale tragico e nel romanzo incorpora, nientemeno, il racconto del Genesi. All’apertura paesistica (un Vaud spettacolare senza essere mai pittoresco, un luogo di puri episodi atmosferici) corrisponde tuttavia la clausura dei personaggi: Louis, contadino isolato e laconico, in perenne attesa di sua moglie Adrienne, la ragazza di vent’anni che è scappata di nascosto e senza un plausibile motivo; Lydie, l’ostessa del paese, in attesa di un marito che non verrà mai e però probabilmente innamorata di Louis, al quale si concede talvolta con grazia soccorrevole e persino sororale senza pretendere nulla in cambio da lui, se non un poco di piacere e di gratuita tenerezza; infine Gourdou, il cerretano conciabrocche, l’uomo senza dimora né famiglia, la casella mobile del romanzo, colui che va e viene dalla casa di Louis come dall’osteria di Lydie seminando passi della Bibbia e massime che rammentano a tutti la cacciata dall’Eden e dunque un eterno destino di sofferenza, estraneità e inimicizia fra l’uomo e la donna. Lydie si sottrae al magistero del cerretano mentre il cupo Louis, dapprima allievo silente, decide a un certo punto di invertirne la lezione: costruirà in casa sua un giardino, domestica variante dell’Eden, e lì aspetterà mutamente il ritorno della transfuga Adrienne. La quale tornerà, per poche ore, per una sola notte, prima d’esserne bandita per sempre quasi avesse svelato agli occhi del marito, nella sua arresa nudità, la caduta irrimediabile di ogni essere umano e cioè la sua natura di monade ostile ed incomunicante.
Qui Ramuz è al cospetto di un assoluto negativo e incide sulla pagina la scissura fra l’uomo e la donna, l’impossibilità di un legame che non sia viceversa l’esito di un equivoco o di un sottaciuto dominio. Alla fine del romanzo, mentre Louis si vede da lontano ritornare alla sua casa vuota e al giardino disertato, che Lydie lo aspetti muta sul ciglio della strada, promettendo dopo tutto un qualche lenimento, nulla toglie a una morale tanto tragica da apparire cristianamente spietata o fatale di una fatalità che il paesaggio del Vaud, nella sua reiterata incombenza, si incarica di testimoniare per allegoria.
Tante volte a Ramuz è stato imputato di voler illustrare la sua terra, tante volte (e a proposito in particolare di Adamo ed Eva) lo si è detto incapace di uno stile controllato e, anzi, di una autentica coscienza linguistico-stilistica. Ma Ramuz ignora la compostezza idillica e spezza di proposito l’equilibrio dell’immagine, prima che uno scrittore egli è un intagliatore che agisce con violenza sulla levigatezza dei materiali: i paesaggi sono presi di scorcio, per improvvise aperture o rapide corrusche chiusure, le sue frasi vanno in asincrono, per lo più piegate, spezzate dall’ellissi. In Adamo ed Eva, semmai, Ramuz si produce in una forma di mimetismo ulteriore e/o di manierismo superiore non solo trascrivendo i passi del Genesi ma adottando uno stile polifonico che, specialmente nei monologhi interiori, sa duplicare il passo lungo e l’andatura salmodiante dei versetti biblici che a sua volta Paolo Vettore sa rendere con aderenza in italiano. (E, sia detto per inciso, non c’è autore suo contemporaneo che in Italia possa dirsi somigliante a lui se non, per certa tetraggine protestante e per l’asperità inventiva, il Piero Jahier di Ragazzo).
Fatto sta che Adamo ed Eva, al di là dello spessore allegorico, è un romanzo sulla condizione umana e prima ancora sulla solitudine, immedicabile, degli esseri umani. Nell’atto di tradurlo, ne aveva bene inteso il senso Fortini, il quale si riferiva a una partitura saggistica ma, potenzialmente, mirava alla Stimmmung che ne segna per intero l’opera: «Chi legga dovrà cogliere subito il tono di una meditazione da diario (…) un ragionare che non si preoccupa di esattezze tecniche, che non si vergogna della sua semplicità e che, immeditato e carico d’affanno, ritorna su se stesso, si ripete, si ripropone, con una sintassi laboriosa, priva di grazia e di facilità e pur piena di quei due elementi, la grandezza e l’amore, che fanno vivere tutta l’opera dello scrittore svizzero».
Charles-Ferdinand Ramuz non è mai stato uno scrittore d’avanguardia né tanto meno, sua fortuna, per palati troppo fini, e però colui che venne stoltamente irriso come il rappresentante delle «virtù casearie» del proprio paese, in realtà fu uno scrittore degno e grande del suo secolo, un uomo colmo di disperato amore per la realtà.
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