foto Mario Ramous
Mario Ramous nel 1956, poco più che trentenne
Alias Domenica

Ramous, il poeta traduttore che si specchiava in Orazio e Catullo

Una mostra bio-bibliografica a Bologna Intellettuale polivalente, Mario Ramous ha accompagnato la propria evoluzione metrico-stilistica (dal post-ermetismo al poème en prose) con una originale pratica della versione dai classici latini
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 24 luglio 2022

E’ aperta sino al prossimo 4 settembre a Bologna, presso le Collezioni Comunali d’Arte di Palazzo d’Accursio, la mostra La memoria del futuro. Mario Ramous. Un intellettuale a Bologna, dal dopoguerra agli anni Novanta. Promotore dell’evento è il Centro Studi Mario Ramous con la collaborazione di Scripta Maneant Editore. Il lucido percorso espositivo, curato da Maura Pozzati e Michele Ramous Fabj, affronta da molteplici punti di vista gli interessi poliedrici di Mario Ramous, poeta e traduttore di poesia, latinista, critico d’arte e direttore editoriale, documentando i molteplici linguaggi che egli incrociò, fra poesia e traduzione, nelle fasi centrali della letteratura del Novecento.

Ramous nasce a Milano nel 1924 e la sua infanzia e prima giovinezza attraversano così il ventennio fascista e la vicenda della guerra. È nell’immediato secondo dopoguerra, a partire dal 1947 che, una volta conclusi gli studi fra Firenze e Bologna, città che sarà per lui la vera casa, Mario Ramous incomincia la sua attività di critico d’arte per il quotidiano bolognese Il progresso d’Italia: questo impegno come critico d’arte verrà poi diradandosi negli anni, senza mai essere abbandonato del tutto. Quasi in parallelo, a partire dal 1950, incomincia la sua attività presso l’editrice Cappelli, per cui curerà la collana «Universale», e collaborerà con altre collane, come la «Biblioteca dell’Ottocento Italiano» diretta da Gaetano Mariani e «Dal soggetto al film» diretta da Renzo Renzi. Sempre in quel torno di tempo, in particolare nel 1951, si colloca la sua prima opera poetica, La memoria, il messaggio, con la prefazione di Salvatore Quasimodo. Comincia per Ramous quel percorso di ricerca metrica e stilistica che lo porterà, dal post-ermetismo, attraverso molteplici influssi ed esperienze di poetica, fino al poème en prose e a una ricerca parallela originale e autonoma, nell’epoca dominata dalle neoavanguardie e dai loro postumi letterari: un percorso che gli vale l’attenzione di Giorgio Bàrberi Squarotti, prefatore della raccolta Quantità e qualità, del 1968, e di Pietro Bonfiglioli che introdurrà Macchina naturale, del 1975.

Di particolare rilievo, e di fatto complementare alla sua evoluzione poetica, è l’attenzione ai classici latini, dalla poesia oraziana (Il libro delle odi, 1954), alla traduzione, per la Garzanti, di tutto Catullo (’83), nonché delle Georgiche di Virgilio (’84), del Corpus Tibullianum e di tutto Orazio (’88), sino alle Metamorfosi di Ovidio (’92), l’esito più avanzato di questa ricerca.

All’attività di poeta e di poeta-traduttore fa da supporto quella didattica a larghissimo raggio, concretizzatasi nel suo duplice impegno di docente a Urbino, per la metrica, nell’ambito dell’italianistica, e per l’estetica, nell’ambito dell’Accademia di belle arti. A parte la collaborazione con Francesco Flora per la Grammatica italiana, e la partecipazione all’Enciclopedia europea Garzanti, per cui cura le voci di linguistica, fondamentale resta La metrica (1984) che condensa in un manuale l’interesse di Ramous per la struttura formale della comunicazione poetica.

Questo breve e per forza di cose incompleto panorama bio-bibliografico è appena sufficiente a dare l’idea di quanto sia difficile seguire in ogni aspetto il percorso di Ramous attraverso le sue molteplici vite artistiche, inclusa quella di traduttore di poesia latina. La sua opera poetica, che si dipana su un arco temporale di quasi mezzo secolo, dal 1951 al 1998, cioè fino a un anno prima della morte, è segnata da una complessa evoluzione, che meriterebbe maggior attenzione da parte della critica e dei lettori di poesia. Un buon servizio ha reso, da questo punto di vista, la pubblicazione del volume di Tutte le poesie per i tipi di Pendragon nel 2017, con un saggio introduttivo a opera di Giovanni Infelise. Sul piano strettamente formale e stilistico, la produzione poetica di Ramous comincia (La memoria, il messaggio) con una versificazione limpida e di dettato semplice e diretto, che fa dell’endecasillabo, trattato con estrema spregiudicatezza, la sua cellula ritmica. Ma già in Programma n° (1966), si assiste a uno slittamento verso le forme atonali o verbo-visuali che caratterizzano la produzione matura di Ramous nella sua fase centrale, negli anni settanta e ottanta, per poi tornare al recupero delle vecchie forme in strutture ibride. Sul piano della poetica, il rapporto fra il poeta e il suo linguaggio è connotato, negli anni sessanta-settanta, da una fase di rivoluzione contro la grammatica e la struttura, con tanto di presa di coscienza del «carico di autodistruzione» che questo atto rivoluzionario della parola contro se stessa comporta. È il periodo in cui l’opera di Ramous si muove nell’ecosistema poetico teso fra la trasformazione del Gruppo 63, l’età della parola innamorata e la subitanea fase di ripiegamento della poesia italiana, condensata attorno agli eventi di Castelporziano (1979). Più avanti, la maturazione di questa sofferta relazione con la pulsione della parola poetica si tradurrà nella presa di coscienza della poesia come «insanabile cancro dello scrivere» o come «gioco insulso» che pure è l’unico in grado di costringere il sé di chi scrive al suo redde rationem esistenziale ed estetico.

Se in parallelo a questa convulsa evoluzione della poetica (o meglio delle poetiche) di Ramous, seguiamo la sua attività di traduttore, culminante nel Catullo e nelle Metamorfosi ovidiane, troviamo una inevitabile consonanza di forme e strutture: senza precipitare nell’eccesso di un Ceronetti, che fa del poeta tradotto un alter ego pessoiano, senza lacerare e tormentare la trama verbale fino a sgretolarla, per distillarne l’impeto comunicativo, come fa un Savino con i suoi quasi coevi Saffo e Alceo, Ramous indaga nell’ordito poetico dei latini alla ricerca del non detto, del sovra-senso, tentando in qualche modo di portarlo alla luce. Nel panorama frastagliato dei traduttori poeti novecenteschi, egli si ritaglia così uno spazio personalissimo, fatto di equilibrio formale e scavo della parola tradotta. Ed è indubbio che nel Ramous traduttore per Garzanti, tutte le anime del poliedrico autore convergono: dal divinatore critico del senso dell’arte figurativa al grammatico, passando ovviamente per il poeta, i latini tradotti da Ramous riflettono in più di un aspetto la personalità del loro decodificatore, dal poema in prosa riproposto per le Satire oraziane, allo scavo lirico delle Epistulae, al Catullo nugatorio, al narratore raffinato dei Carmina docta, fino all’Eneide e all’affabulatorio poema atonale delle Metamorfosi, con i suoi stichi fra prosa e verso. Pochi altri traduttori hanno fatto degli antichi lo specchio della loro poetica con tale profondità, senza tuttavia snaturarli nella loro prospettiva storica e nella loro individualità poetica.
Sulla natura profonda di un così potente (e misconosciuto dal grande pubblico) attore della cultura italiana del ventesimo secolo, l’esposizione bolognese La memoria del futuro offre sapidi spiragli a chiunque voglia accostarglisi e conoscerlo come merita. La mostra presenta infatti un saggio circostanziato e illuminante dei contributi fondamentali di Mario Ramous a quello che il sindaco Matteo Lepore, nell’introduzione al volume di presentazione dell’evento, chiama a giusta ragione «periodo di grande fermento culturale e politico… dopo gli anni bui del Ventennio».
L’itinerario si sviluppa, come detto, lungo le sei sale delle Collezioni Comunali d’Arte a Palazzo d’Accursio e si snoda in una continua scoperta di inediti, interessi poliedrici e instancabile ricerca di «perfezione» dell’autore. L’interesse di Ramous per l’arte trasforma quella che altrimenti sarebbe una mera ostensione documentaria, in un vero e proprio percorso museale: vi figurano infatti opere d’arte di pregio appartenenti alla collezione personale del poeta: un disegno di Giorgio Morandi del 1915 dal titolo Piatti; il grande olio Omaggio a Carpaccio di Concetto Pozzati (1964); una tecnica mista di Rodolfo Aricò del 1965, Forma e campionario; un olio su tela di Sergio Romiti del 1949; un mobile bar con disegno di Pirro Cuniberti; le lastre di stampa originali delle opere di Giorgio Morandi e Marino Marini, pubblicate rispettivamente in I disegni di Giorgio Morandi (1949) e La memoria, il messaggio (1951). Completano la panoramica delle attività di Ramous manoscritti di poesie e traduzioni, poesie visive, disegni pubblicitari inediti, spartiti musicali, articoli di critica e volumi rari, edizioni a tiratura limitata, di cui egli è stato curatore e autore: un esempio fra tutti, Il libro delle odi. Legata alla mostra è la pubblicazione del prezioso catalogo, ricco di interventi, e di un volume di poesie inedite dell’autore, ritrovate da Michele Ramous Fabj: Archivio21. Poesie 4660/29, edito sempre da Scripta Maneant.

La sinergia fra evento culturale, critica militante e impegno editoriale fa di questa La memoria del futuro un’occasione rara di riscoperta di parti di un Novecento perduto, che i rapinosi slittamenti della critica del primo quarto del ventunesimo secolo rischiano altrimenti di obliterare del tutto.

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