Ramin Bahrami, note di Persia
Un incontro con il celebre pianista iraniano, autore del volume «Mille e una musica»
Un incontro con il celebre pianista iraniano, autore del volume «Mille e una musica»
In libreria, da qualche giorno, spicca un volumetto giallo, Mille e una musica. Breve storia della musica persiana, che viene a colmare una vistosa lacuna nel panorama italiano di cultura musicale, dal momento che nulla esiste di simile al centinaio di pagine scritte dal grande pianista Ramin Bahrami, oggi forse il maggior interprete alla tastiera delle opere di Johann Sebastian Bach, come dimostrano i 17 cd pubblicati con l’inglese Decca, tra cui di recente un curioso Bach Is in the Air in duo assieme al jazzman Danilo Rea. Iraniano di nascita (nel 1976 a Teheran), poi esule da bambino in Italia e Inghilterra e ora domiciliato a Stoccarda, padroneggia benissimo la lingua di Dante, al punto da pubblicare già cinque libri, dal 2012 al 2019, tra musicologia e divulgazione: Come Bach mi ha salvato la vita, Il suono dell’Occidente, Nonno Bach, Wolfang Amadeus Mozart. Il genio sempre giovane, Ludwig van Beethoven. Il genio ribelle.
In controtendenza, Mille e una musica risulta un testo breve, ma, come i precedenti, essenziale, documentato, intrigante, senza dubbio, assolve «un debito di riconoscenza – è l’autore stesso a parlare in quest’intervista per Alias – nei confronti della mia terra natia e contemporaneamente, il desiderio di far conoscere una civiltà, che purtroppo spesso viene confusa con quella araba e non viene riconosciuta per le radici indoeuropee in comune con la cultura occidentale».
Nel libro Bahrami indica, in dialettica con la storia, i momenti salienti di oltre mille anni di musica persiana, che ad esempio vanno dall’invenzione dei radiff (i corrispettivi dei modi greci antichi) a un uso del ritmo quasi improvvisato e capaci di assecondare gli stati d’animo attraverso invenzioni estemporanee continue. Il tutto inizia prima ancora del celebre impero persiano – in lotta contro greci e macedoni circa 2500 anni fa – quando la civiltà iranica dà vita «a una mentalità aperta solare e propensa non al culto delle divinità, bensì al dualismo intrinseco del pensiero zarathustriano che si basava sull’alternanza tra Bene e Male, sì vicino ed annesso al pensiero cristiano. Per dirla musicalmente potremmo parlare delle tonalità Maggiori (Mahur) e Minori (Shur), Giorno e Notte». Le teorie (degli storiografici occidentali, perpetuate anche dai media, ad esempio in film come 300) perdono ogni tipo di valenza, se andiamo a studiare le costruzioni persiane, sia quelle linguistiche, che architettoniche presenti in alcuni luoghi, ad esempio le rovine di Persepolis, Ecbatana, Pasargade o zone limitrofe del mar Caspio quali Rasht e Gylan.
Benché non citato apertamente, Ramin fa riferimento anche al saggio Così parò Zarathustra di Friedrich Nietzsche («tradotto» da Richard Strauss, in poema sinfonico a sua volta usato da Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio per sottolineare l’alba dell’umanità) tentando di spiegarlo velatamente, difendendo il filosofo tedesco che «a mio avviso rende trasparente e intellegibile, in maniera sorprendente e alquanto visionaria, lo spirito e la luce che costituivano la cultura persiana. Un popolo amante di giustizia, ordine, onestà, precisione e bellezza, elementi presenti ovviamente anche nella lingua e nella musica». Non vi sono però testimonianze dirette delle sonorità persiane ai loro albori, ma «se ci basassimo sulle iconografie e i reperti storici, avremmo un’ idea al quanto verosimile di ciò che questa antica civiltà potesse rappresentare; è incredibile scoprire per esempio, che la musica preislamica, la musica ai tempi di Zarathustra emanava una luce e positività assolute che l’avvento dell’Islam farà scomparire pian piano, sostituendo le caratteristiche citate con litanie tristi, spesso in tonalità minori e privilegiando la solitudine e languore e le difficoltà e gli abissi presenti nell’animo umano».
Una tesi del libro è che, più tardi, musica e cultura persiane resistono all’Islam o almeno lo condizionano o lo plagiano sino a farne qualcosa di diverso dal resto del musulmanesimo: «Sono assolutamente d’accordo sul fatto che la cultura persiana antica, per lo meno quella in qualche modo pervenutaci attraverso testimonianze orali o descritte dai grandi poeti persiani e attraverso anche reperti storici come sui mosaici e miniature e raffigurazioni sui piatti d’ argilla, ci indicano la capacità assolutamente straordinaria di interagire con la cultura musulmana, arricchendola e dando una propria impronta propria ben riconoscibile e un tocco di morbidezza e un senso di prospettiva che spesso sono assenti nella musica dei paesi islamici, nella quale si ha spesso la sensazione che la musica non debba esprimere un contenuto umano e poetico alto o culturalmente colmo di significati emotivi, ma un susseguirsi di suoni disorientanti e non sempre ben organizzati con l’intento di distrarre l’ ascoltatore dai pensieri e problemi giornalieri in qualche modo paragonabile alla musica elettronica tanto amata dai giovani, oggi ballata nelle discoteche di mezzo mondo. È sorprendente come il temperamento e lo spirito persiani si amalgamino con l’Islam, senza diventarne prigionieri, così da dare vita a quella che viene considerata oggi la musica classica persiana».
Ancora un volta la musica si salva grazie al folklore come accadde per l’antica Roma le cui danze in parte si avvertono oggi nella tarantella o nel saltarello. È così anche per la Persia: «Le tracce della musica persiana sono da scoprire nelle musiche dei villaggi e nelle tradizioni popolari e melodie tramandate dai contadini di Mazandaran o la musica kurda che paradossalmente sono riusciti a conservare meglio lo spirito gioioso della cultura persiana». La musica nella Persia contemporanea si apre a nuove esperienze con la Famiglia Pahlavi, lungo il Novecento sino agli anni Settanta: «C’erano festival importantissimi dove Yehudi Menuhin, Arthur Rubinstein, Herbert von Karajan erano di casa. Al di là dei difetti che sicuramente un imperatore come Reza Pahlavi poteva avere (ma quale politico non li ha!) l’Occidente e i comunisti presenti nel paese pensarono bene a frenare una società in progresso permanente e sviluppo economico, ove sicuramente una maggiore polifonia avrebbe giovato. Quell’Iran progrediva, purtroppo la venuta degli Ayatollah bloccò tutto questo».
Da oltre quarant’anni in Iran le discoteche sono vietate, come pure rave party e concerti rock, rap, pop, jazz (se non, clandestini, in abitazioni private) in una situazione tristissima: «La musica classica dei giganti occidentali (per intenderci), ovviamente la musica classica iraniana e le canzoni e musiche del folklore iraniano, sono oggi le uniche musiche ammesse». E alla fine del volume vengono ricordati compositori da Sharddad Rohani a Ali Reza Mortazavi, star autoctone vicine all’elettronica – Yas, Hossein Alizadeh, Zebhazy, Arash, Sogand – oppure artisti undergorund come Hichkas, Kaardo, Bahram Nouraci, Reza Pishro, Fadaei.
Per noi occidentali, nonostante qualche apertura al turismo straniero, l’Iran appare privo di simpatia e di empatia verso le civiltà locali, per colpa di complessità ideologico-religiosa, che però non sfugge all’autore di Mille e una musica: «Il problema è molto semplice da spiegare: l’Islam è stato sempre imposto in Persia. i persiani nascono indoeuropei e hanno il loro mondo e modus vivendi originale: a un certo punto vengono invasi dagli arabi e, pur assimilando anche quella araba, per fortuna mantengono nel corso dei secoli le proprie identità integre. L’Islam non ha potuto cancellare la cultura iranica, né quella iranica ha modificato veramente i precetti fondanti musulmani, salvo aver reso più affascinante e versatile la cultura islamica; si spiega in questo modo tale incompatibilità di intenti».
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