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Rallenta la crescita, ma per Pechino va bene così

Rallenta la crescita, ma per Pechino va bene cosìLavoratrice in fabbrica cinese – Reuters

Cina Crescita al 7,7 % come nel 1999, ma la leadership dice di aver previsto tutto

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 21 gennaio 2014

Secondo i dati rilasciati dal governo di Pechino, la Cina rallenta la sua crescita economica. Tuttavia la leadership locale è soddisfatta, perché il nuovo mantra del Partito Comunista è crescere meno, ma meglio. All’interno delle riforme approvate dal Plenum dello scorso novembre, sono previste tante manovre che prevedono un cambio di rotta dell’economia del Dragone, basate proprio su un rallentamento economico. È la sfida della Cina nei prossimi vent’anni: basta numeri da ritmi sfrenati che portano solo squilibri e tensioni sociali, via libera alla creazione di un ambiente economico che favorisca investimenti e renda felice la nascente classe media nazionale. Nel 2013 la crescita su base annua del Prodotto interno lordo è stata del 7,7 percento lo stesso ritmo del 2012. Si tratta della crescita più bassa dal 1999.

E per l’anno prossimo la politica cinese si prepara ad un’accoppiata poco propizia: la crescita è prevista infatti possa calare fino al 7,4 percento, un dato che riporterebbe l’economia cinese al 1990, l’anno dopo i tragici fatti di piazza Tiananmen che segneranno nel 2014 il loro venticinquesimo anniversario (e il dato economico di allora fu fortemente influenzato dalle sanzioni economiche decise dalla comunità internazionale dopo la repressione di piazza di Deng Xiaoping). Sulla base degli altri dati rilasciati da Pechino, si è appreso che la produzione industriale è cresciuta del 9,7 percento a dicembre, rispetto al 10 percento di novembre. Nel 2013 nel suo complesso, la produzione industriale è cresciuta del 9,7 percento rispetto al 2012, mentre gli investimenti sono aumentati del 19,6 percento.

Quali sono le ragioni di questo rallentamento?

Innanzitutto la crisi occidentale che continua a colpire le esportazioni cinesi, unita ad un mercato interno che ancora non riesce a riequilibrare la situazione. Si tratta della prima risposta, perché all’interno del gigante cinese si annidano problematiche ormai storiche, che hanno come principale causa la questione dei debiti locali e la difficoltà ambientale dell’economia a consentire investimenti capaci di creare ricchezza collettiva, anziché finire in vicoli ciechi. C’è quindi un problema fiscale innanzitutto: le amministrazioni incassano una parte della fiscalità, ma devono poi provvedere a finanziarie tutti i servizi sociali. La loro bilancia economica, è negativa. Rimediano dunque come hanno sempre fatto: vendono terreni, dando linfa alla bolla immobiliare, affidandosi alle banche ombra.

Ci sono poi i tassi di interessi delle banche, troppo bassi per i risparmi dei cinesi, che non producono ricchezza, anzi e che finiscono per alimentare settori occulti come i prestiti privati, non regolamentati in maniera adeguata. Quindi, lo sviluppo denghiano, se ha regalato alla Cina il ruolo di seconda economia mondiale, ne ha altresì sancito le problematiche attuali. La Likonomics, la ricetta economica della leadership, si appresta a correre ai ripari. Si tratta di innescare micro riforme che finiranno per modificare per sempre e quasi del tutto il modello di sviluppo cinese. L’obiettivo è uno (e al suo interno è esemplificata quella che ai nostri occhi appare come la summa delle contraddizioni cinese): la produzione nazionale deve essere assorbita dal mercato interno, quindi i cinesi devono essere messi nelle condizioni di spendere. Significa riforma del credito, dei tassi di interesse, in poche parole una vera redistribuzione del reddito, attraverso l’ingresso dei privati. Che il Partito e gli strati sociali privilegiati, lo vogliano o meno.

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