Rai, il pasticciaccio brutto di Viale Mazzini
Prima di tutto -parziale medicina dei mali del servizio pubblico radiotelevisivo- va sottolineato il successo dello sciopero convocato lo scorso lunedì 23 settembre dalle organizzazioni sindacali: Cgil, Cisl, Uil, Snater e Ugl. Sono scesi in lotta addette e addetti non appartenenti alla formale professione giornalistica. È una vecchia storia, cui provò a dare una soluzione unitaria il tentativo sperimentato dopo la riforma del 1975 nella seconda rete televisiva diretta da Massimo Fichera dalla trasmissione Cronaca. Furono immaginati i nuclei ideativi e produttivi (Nip), volti proprio a superare confini tra ruoli diversi non sempre giustificati dalla pratica reale.
Fu un sogno effimero, ma neppure è giustificata l’assenza di un più esplicito appoggio (con lettura nei Gr e nei Tg) della riuscitissima mobilitazione, che ha visto l’adesione di massa attorno ad una piattaforma velata di inquietudini sul futuro dell’azienda. Che ne sarà del canone di abbonamento, oggi ridotto ma riequilibrato da risorse pubbliche, ora però- tutt’altro che certe. Quali politiche industriali segneranno il futuro nell’universo dell’intelligenza artificiale di un apparato sceso via via di peso e di qualità? L’ulteriore privatizzazione della società degli impianti RaiWay è un sintomo allarmante di una assenza di visione nel momento in cui rete e reti sono il tesoretto dell’intero sistema.
Il direttore generale Rossi forse si sarà ricreduto, dopo la gaffe che fece con i sindacati quando si insediò e trattò con sufficienza le organizzazioni del lavoro.
A proposito di Giampaolo Rossi, in odore da tempo di indossare il distintivo di amministratore delegato, c’è da dire che il governo lo vorrebbe come uomo forte nel futuro vertice. Del resto, la legge varata dall’ex premier Matteo Renzi nel dicembre del 2015 regala l’opportunità a Palazzo Chigi di prendersi il potere nei piani alti di viale Mazzini di Roma.
Ma siamo sicuri che tutto andrà liscio?
La Rai è finita in un pasticciaccio che si poteva agevolmente evitare. Era sufficiente varare un piccolo provvedimento che desse legittimità alla proroga dell’attuale consiglio di amministrazione (la proroga dura al massimo 60 giorni), magari istituendo un autorevole traghettatore, disponibile a facilitare la riforma appesa a un filo da moltissimi anni. A termine.
E qui sta il punto. Pendono sul voto parlamentare incardinato (salvo novità) per giovedì 26 settembre due nubi. Incombono su di una procedura che governo e maggioranza perseguono con la bramosia degli occupanti. Parliamo di un’udienza del prossimo 23 ottobre presso il Tribunale regionale del Lazio scaturita dal ricorso di diversi candidati al Cda coordinati da Roberto Zaccaria sull’assenza di modalità davvero selettive e trasparenti; nonché dell’entrata in vigore nell’agosto del 2025 dell’articolo 5 dell’European Media Freedom Act, che innova in maniera sostanziale i criteri di nomina.
Se si volesse completare la citata procedura senza se e senza ma, giovedì che accadrà? La destra intende sancire definitivamente l’immagine che si è data degna di una democratura?
Il fronte progressista, al di là di ciò che succederà nel segreto delle urne, non può e non deve smarrire quella efficace e convincente volontà unitaria mostrata fin qui, tesa ribaltare l’ordine degli addendi: innanzitutto la riforma.
Se la stessa presa di posizione della maggioranza, che sembrava al riguardo aprire uno spiraglio, non è acqua fresca, allora si calendarizzi l’iter riformatore: già vari testi sono depositati e ulteriori potrebbero essere aggiunti. Si metta un termine alla discussone e al varo di una normativa volta a rendere autonoma e indipendente la Rai.
In fondo, il felice sciopero del passato lunedì aveva simile sentimento e da numerose parti si è levato un vero e proprio grido di dolore. Dalla Federazione della stampa, all’Ordine dei giornalisti, all’associazione Articolo21, a MoveOn, a Rete NoBavaglio, e non solo.
La Rai è un frammento di una vicenda generale, che tocca i cardini della Costituzione antifascista. Se no, è solo un pasticciaccio e senza neppure Gadda.
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