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Rai, Calenda e Giacomelli: vuotate il «sacco»

Rai, Calenda  e Giacomelli: vuotate il «sacco»

Ri-Mediamo La rubrica settimanale a cura di Vincenzo Vita

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 1 marzo 2017

Tira una pessima aria sul rinnovo della concessione della Rai. Siamo al terzo rinvio, questa volta il termine è il 29 aprile prossimo.

Stranissima vicenda già di per sé, visto che la concessione è una data e non si comprende perché alla scadenza del 6 maggio scorso non vi sia stato un rinnovo decennale, così come atteso.

Altra storia è quella della convenzione con lo Stato, reintrodotta inaspettatamente dalla legge 220/15 (la «riforma»), dopo che dal 2004 l’istituto aveva cessato di esistere, sostituito dal contratto di servizio.

Pasticcio normativo a parte (che differenza c’è tra l’una e l’altra cosa?), il testo poteva seguire l’atto di concessione. Come ma no? Visto che non è lecito avere dubbi sull’intelligenza degli interlocutori coinvolti, gatta ci cova.

È chiaro che i mesi trascorsi, più che un tradizionale ritardo, sono stati una lunga sequenza negoziale. Non l’erudita discussione avvenuta nell’aprile 2016 intorno ai tavoli voluti dal governo presso l’Auditorium di Roma, bensì il crudo confronto sull’esclusività o meno dell’affidamento del servizio pubblico alla Rai. È la differenza tra carattere «oggettivo» o «soggettivo» del servizio, con una costante giurisprudenza della Corte costituzionale a favore della seconda ipotesi.

Il «Protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica negli stati membri» annesso al Trattato di Amsterdam dell’ottobre 1997 dava ampia facoltà agli stati nazionali di regolare la materia e così è stato pressoché ovunque nel vecchio continente.

O sulla Rai l’Italia ha deciso di uscire dall’Europa?

Tra l’altro, fu proprio l’attuale presidente del consiglio Gentiloni a ben affrontare la materia, con un disegno di legge (1588/07) elaborato quando era ministro delle comunicazioni e che potrebbe persino essere ripresentato oggi per superare il caos che si è determinato. L’hanno chiesto esplicitamente associazioni come MoveOn e Articolo21. Tentar non nuoce.

Insomma, la nuova convenzione, il cui varo è previsto a giorni da parte del consiglio dei ministri, potrebbe contenere qualche diminuzione sostanziale del ruolo di viale Mazzini, che verrebbe letteralmente fatta a pezzi.

Non solo.

Si sussurra che l’attuale limite settimanale del 4% di pubblicità sul monte ore della programmazione sarebbe applicato a ogni singola rete e non all’insieme dei canali.

Perdita prevedibile di 80/90 milioni di euro. E pure questo non è un potenziale ridimensionamento? Non sarebbe meglio – se mai – togliere la pubblicità a una singola rete, per liberarla da ogni condizionamento?

Del doman non c’è certezza, dunque. E non per la crudeltà del destino. Il gruppo dirigente dell’azienda, che in queste ore sta protestando vibratamente per il tetto di 240.000 euro posto ai compensi dalla legge sull’editoria dell’anno passato (198/16), dov’era quando una maggioranza parlamentare liberista a giorni alterni introduceva un tetto solo per la parte pubblica del sistema?

Un po’ di quaresima è utile, dopo anni di sprechi, ma per tutti. Pure per Mediaset, per capirci, che ha il dono di cadere sempre in piedi. E non sarà un caso, ovviamente.

L’articolato della convenzione dovrà essere discusso dalla commissione parlamentare di vigilanza e, quindi, finalmente se ne saprà qualcosa davvero.

Ci si attende, anzi, di poter leggere il testo sul sito della Rai. Il governo sostiene del resto, che ormai abbiamo il Freedom of information act.

Allora, bando al segreto. Coraggio, allora, Calenda e Giacomelli: vuotate il «sacco».

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