«In quegli anni la gente partiva…dai paesi della mia fanciullezza non si faceva che andare», scrive Vito Teti in Pietre di pane. Gli anni sono i Cinquanta del secolo scorso, alla metà o poco oltre. I paesi del sud d’Italia, e alcune aree del Veneto e del Piemonte, si svuotano, mentre le grandi città del Nord, Milano, Torino, si gonfiano a dismisura. Tra la metà degli anni Cinquanta e i primi Sessanta 1.500.000 di italiani si spostano dal Sud al Nord del paese, prendendo la strada  dell’emigrazione («Non vogliono più restare sulla piazza del paese, attorno alla fontana», ha scritto il meridionalista Francesco Compagna). Ed è un «terremoto», una deflagrazione, che manda in frantumi le fonde radici contadine dell’Italia e il suo precario assetto. Una terra immobile, come pietrificata nel tempo, si scuote, si mette in movimento, apre una breccia nel «mondo murato» del proprio isolamento. Semplicemente cerca vita, rispondendo al richiamo del nuovo benessere dopo gli stenti di sempre. Una sirena dal canto ammaliante. Così intere famiglie entrano a far parte dell’epica delle valigie di cartone, salendo sul treno che, ogni giorno, si muove da Palermo alla Stazione Centrale di Milano e a Porta Nuova a Torino. Quel treno ha un nome, «Fata Morgana», come i miraggi che attraggono chi viaggia nel deserto, o nello stretto braccio di mare fra Calabria e Sicilia.

In molti dei suoi libri, Vito Teti ha inseguito le voci disperse di «questa terra in fuga, mobile, inquieta», tenacemente si è messo sulle tracce di chi, «tra abbracci e pianti», dai paesi si è allontanato. Ha fatto vivere i loro sogni e le loro speranze. Ha dato risalto al loro dolore.

Ma in Pietre di pane Un’antropologia del restare, ora riedito da Quodlibet (pp.224, € 20,00), la linea del suo sguardo ha mutato direzione: oggetto della sua attenzione non è più l’andare, ma il restare. La «restanza» appunto, che raccoglie l’accumulo dei sentimenti e delle ragioni di chi ha deciso di restare, e non per rassegnazione, ma per scoprire o inventare il senso del proprio abitare. Nuova vita, che si trova a scorrere in un paesaggio di rovine. Chi resta è costretto ad avanzare nel deserto, senza acqua né cibo, ma vuole resistere alla «sentenza di morte» che pesa sull’intera geografia del Meridione d’Italia. Restanza è resistenza, ed è cura del presente e progettazione di futuro.

Vito Teti guarda in particolare alla Calabria, la terra, avvezza alle catastrofi,  dove è nato, e dove ha deciso di restare, soffrendo in prima persona la lacerazione degli affetti ( il padre, a metà degli anni Cinquanta, emigra in Canada) e la risonanza luttuosa delle partenze. Fra i paesi della Calabria, Vito Teti ha camminato a lungo, guardando, parlando, fotografando, forzando il loro denso silenzio, perché il silenzio non arrivi a risucchiare «il senso dei luoghi». Ed è attorno al «senso dei luoghi» che si raccoglie la ricerca antropologica di Vito Teti, ostinata lotta contro il silenzio e l’abbandono.