Ragazze ribelli che non si adeguano
RITA SEGATO Conversazione con l’antropologa femminista, tra le più note in America Latina e ospite in questi giorni in Italia
RITA SEGATO Conversazione con l’antropologa femminista, tra le più note in America Latina e ospite in questi giorni in Italia
«C’è la pretesa che quello che noi cambieremo muterà tutto». A riconoscerlo è Rita Segato, tra le antropologhe femministe più note in America Latina, docente presso l’Universidad de Brasilia e attiva nelle mobilitazioni che negli ultimi anni hanno investito il continente al grido Ni una menos. Le sue opere sono state un punto di riferimento per il movimento femminista, che a lei si è richiamato per portare alla luce il carattere strutturale della violenza patriarcale, intesa come pratica fondativa di ogni rapporto di potere e di oppressione. Tra i suoi volumi segnaliamo La crítica de la colonialidad en ocho ensayos (2000), Las estructuras elementales de la violencia (2000), La escritura en el cuerpo de las mujeres asesinadas en Ciudad Juàrez (2013), La guerra contra las mujeres (2016) e il recente Contrapedagogías de la crueldad (2018) .
Vorrei partire dalle immagini di un milione di voci che esultano di fronte al Congresso Argentino il 14 giugno, quando è stata data la media «aprobación» alla legge sull’aborto. La mobilitazione per l’aborto libero, sicuro e gratuito è cominciata molti anni fa, ma solo ora ha conquistato la forza necessaria a conseguire questo risultato storico, benché ancora parziale. Da che cosa dipende secondo te questo salto, pensi che abbia un rapporto con la lotta contro la violenza patriarcale che in America Latina, come in tutto il mondo, le donne stanno portando avanti?
La mobilitazione per l’aborto va avanti da molti anni, ha coinvolto donne – come Martha Rosenberg e Nelly Minyersky – a cui bisogna rendere onore per avere lottato così a lungo. All’interno del movimento ci sono state delle rotture e dei conflitti, perché alcune non volevano una «concessione» da parte dello Stato, affermavano semplicemente di praticare l’aborto e così facendo esprimevano il loro sospetto verso lo Stato. Questo lo comprendo. Ma nella situazione presente le donne colgono ogni occasione per unirsi. La battaglia per l’approvazione dell’aborto alla Camera è stata un modo per unirsi e mostrarsi insieme di fronte allo Stato e alla società. L’aborto è una pratica importante, la proibizione e la criminalizzazione dell’aborto sono uno stupro di Stato, perché tu hai nel tuo corpo un pezzo di carne che non è tuo e che non vuoi, questo è stupro. Obbligarti a tenerlo è uno stupro di Stato. Quello che non deve essere dimenticato è anche che in Argentina negli ultimi trent’anni c’è stato un costante incontro tra le donne. Quando il 3 giugno del 2015 c’è stata la prima grande manifestazione, e poi con lo sciopero dell’8 marzo, le manifestazioni sono diventate moltitudinarie, ma questo è stato anche dovuto anche all’importanza crescente che per trent’anni hanno avuto questi incontri, senza partiti, senza associazioni, senza un’egemonia. È un movimento senza egemonia e questa è la storia veramente importante che confluisce oggi nelle manifestazioni delle donne. Ora è davvero visibile, ma non è del tutto nuovo.
Questo movimento di massa che tiene insieme milioni di donne e non solo donne sta anche aprendo una breccia in un ordine come quello neoliberale, di cui il governo di Macri è espressione, che semplicemente rifiuta di accettare qualsiasi istanza collettiva proveniente dalla società, da donne, precari, migranti. Il fatto che un movimento sociale ottenga qualcosa forse è già di per sé importante, un cambiamento rispetto alla percezione della completa assenza di ogni possibilità di cambiamento…
La cosa importante è il processo che porta le donne a unirsi, a stare insieme, e in questo la legge sull’aborto è un’opportunità di diventare visibili a se stesse, di far crescere una pratica che stabilisce dei vincoli. C’è la produzione di una cultura che riguarda il modo di fare le cose, che nasce dalla pratica dello stare insieme nei luoghi pubblici. Il processo è la dimensione più importante di quello che sta succedendo, forse anche più importante del risultato. Si dà vita a un modo di stare insieme, un modo di costruire una vita insieme. Le manifestazioni delle donne sono completamente diverse da quelle degli uomini, dei sindacati, dalle manifestazioni politiche intese in senso convenzionale. C’è un diverso modo di apparire e di fare, una diversa atmosfera delle donne che marciano insieme. Il risultato è importante, ma bisogna focalizzarsi sul processo. Dobbiamo nutrire tutti i movimenti che nella società producono incertezza, indefinizione, e la sinistra non è nella condizione di farlo, non sono in grado di cogliere l’incertezza come qualcosa di positivo. E questo è un modo femminile di guardare alla storia. Perché è un modo pragmatico, pratico, ha a che fare con la capacità di improvvisare per riuscire a difendere la vita, è qualcosa di topico e non utopico. Queste mobilitazioni femministe in un certo senso stanno recuperando il senso di quella storia, stanno facendo esplodere il senso della politicità domestica che ci hanno obbligato a dimenticare. Lo stile della politica femminile che nel transito alla modernità abbiamo dimenticato. E questo modo di fare politica con uno stile femminile è qui e ora. Dobbiamo recuperare la topicità più che l’utopia.
Ho qualche difficoltà a trasformare la storia in uno «stile». Credo sia importante pensare il «femminile» come una posizione che deve essere storicizzata, ma nell’atto di politicizzare questa posizione si esprime una pretesa di liberazione dalla storia che ci ha oppresse, è un atto che apre il futuro come possibilità di essere libere, non solo noi donne ma tutti coloro che sono oppressi…
Non mi piace la parola «nemico» – anche se abbiamo dei nemici – ma ci sono antagonisti del nostro progetto storico che lo sanno e da qui viene il cascame fondamentalista, l’opposizione a quella che chiamano «ideologia del genere», perché riconoscono l’importanza di quello che noi stiamo facendo. E quindi reagiscono, reagiscono contro questo movimento, contro il movimento delle donne, Lgbtqi, perché vedono che è una minaccia.
Che cosa pensi del fatto che le donne abbiano scelto lo sciopero come pratica di lotta?
Io credo che sia stato uno sciopero esistenziale, uno sciopero per un diverso tipo di esistenza e di politica nel senso che ti ho detto, in un modo topico, umoristico, celebrativo, comunalistico, capace di produrre vincoli tra me e te, e questo è ciò che definisco esistenziale. Rompe la burocrazia, l’espropriazione. Quando la modernità è arrivata nella città, quando lo Stato è arrivato nella città, le donne hanno perso la sovranità sul proprio corpo eppure tuttora ci sono rituali solo per le donne, una vita comune nei quartieri, segni di riconoscimento, un modo di relazionarsi in modo diverso. Come antropologa, so che la comunità esiste ancora in America Latina, anche se in piccoli pezzi.
Questo però è un movimento globale. Cosa significa pensare la trasformazione femminista di cui hai parlato da una prospettiva transnazionale?
Per l’8 marzo alcune donne latinoamericane che vivono in Francia mi hanno chiesto di fare una dichiarazione per lo sciopero e io ho detto che la posta in gioco è la pluralità. Non possiamo unificarlo né possiamo pensare ora di essere tutte allo stesso modo. Ci sono rivendicazioni comuni, ma cercare un’unificazione sarebbe un errore. Si può unificare qualcosa su cui si ha presa, ma nessuno può avere presa su quello che sta succedendo. Il patriarcato pretende di avere presa su tutto e da questo dipende la sua vita, dal controllo. Noi non possiamo farlo, dobbiamo lasciar essere. Il rischio di aspirare all’unità è troppo grande. È come una bambina appena nata. Si può dire: devi essere bella, disciplinata, educata, devi studiare. Noi dobbiamo avere una bambina ribelle.
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La versione integrale di questa intervista è disponibile su connessioniprecarie.org
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[L’intervista è stata realizzata lunedì 2 luglio a Bologna, durante la Summer School «The Human in Question», organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory, dove Rita Segato ha tenuto un corso intitolato «Race Patriarchy in the Light of the Perspective of the Coloniality of Power» e ieri, insieme a Paola Rudan, ha partecipato, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, a un Dialogue on Ni una Menos. Oggi, l’antropologa latinoamericana sarà presente – insieme a diverse attiviste provenienti da Argentina, Ecuador, Messico e Colombia, all’assemblea organizzata da Non una di meno Bologna e Ni una Menos Argentina su «La struttura della violenza patriarcale. Razzismo, precarietà e giustizia femminista»]
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