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Raffaello redivivo, Roma bizantina

Raffaello redivivo, Roma bizantinaGiulio Aristide Sartorio, studio per "La Gorgone e gli Eroi", 1890-’99, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

Giulio Aristide Sartorio, "Il ritorno di Raffaello", a cura di Cecilia Gibellini Titolo originale, "Romae Carrus Navalis", 1907. Il pittore "della" Camera dei Deputati immaginò il ritorno del Divino nell’Urbe dei suoi giorni, fra esteti nevrotici e esangui nobildonne. Una critica tagliente mascherata da «favola contemporanea»

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 20 dicembre 2020

E’ scelta divertita e divertente quella intrapresa dall’editore Medusa, che – per celebrare la ricorrenza ufficialissima del cinquecentenario dalla morte del Sanzio – s’è avventurato a riesumare la più impegnativa fra le fatiche ‘critiche’ di Giulio Aristide Sartorio, e cioè Romae Carrus Navalis, romanzo coraggioso ma dimenticato, distribuito per l’ultima volta nel 1907 e oggi riproposto sotto al titolo affabile di Il ritorno di Raffaello (pp. 354, euro 27,00).
Il pittore immaginifico, protagonista dell’Urbe dorata e bizantina istruitasi alla lezione di Gabriele D’Annunzio, vi sogna infatti l’impossibile ritorno in vita dell’Urbinate, fra esangui nobildonne e esteti nevrotici, prelati immorali e accademici boriosi, immersi nel clima di una capitale attenta ormai soltanto al verbo di Rossetti e di Burne-Jones: nel comporre la sua ‘favola contemporanea’, l’autore descrive così la dinamica isterica di un duplice anacronismo, quello del nume incompreso, profeta solitario di un passato sepolto, e quello del proprio ingrato ‘presente’, rivolto all’indietro ai fasti di una tradizione fraintesa.
Oltre che sul testo del racconto, il volume conta sull’introduzione critica di Cecilia Gibellini, non nuova al tema della produzione letteraria di Sartorio; argomento cardine per l’attività di promotore culturale svolta dall’artista e, più ampiamente, specchio dei gusti, delle preferenze, delle manie di un’epoca intera.
Appare in questo senso significativo che la studiosa metta in chiaro, sin da subito, l’importanza del documento costituito dalla copiosa narrazione consacrata a Raffaello, una ‘parabola’ di sapore grottesco che si ricollega in maniera evocativa a certi esperimenti di scrittura fantastica perseguiti nel corso dell’Ottocento, senza però mai cedere alle tentazioni macabre della vena gotica; in questo senso è anche virtuoso che ne sottolinei la consonanza d’atmosfere e ambienti con certe prove contemporanee del Vate, fra «La Tribuna», la Capponcina e Francavilla al Mare, quando il poeta creava gioielli onirici e languorosi degni di venir inclusi in più tarde raccolte, come quella curata da Riccardo Reim nel 1992 sotto al titolo inequivoco di Da uno spiraglio. Racconti neri dell’Ottocento italiano. Non a caso Romae Carrus Navalis venne composto attorno al 1904 nel convento posseduto da Francesco Paolo Michetti sulla costa abruzzese, luogo di incontro e di residenza per una cerchia esclusiva di amici e conoscenti frequentata dal Duca Minino insieme allo stesso Sartorio.
La Gibellini è del resto incisiva nel rintracciare la prima idea del romanzo, anticipandola – grazie a un esplicito riferimento dell’autore – rispetto alla data di stesura apposta sulla pagina conclusiva del volume: ne Le confessioni e le battaglie di un artista, pezzo autobiografico affidato nel 1907 alle pagine del «Secolo XX», il pittore riconosce infatti di averne concepito la trama durante il soggiorno di insegnamento all’Accademia di Weimar, quando alle disastrose notizie sulla Guerra d’Etiopia s’era assommata la discordante nuova di un monumento eretto alla gloria di Raffaello in quel d’Urbino.
Una sanguinosa catastrofe nazionale e l’incongrua celebrazione dei geni patri: questi sarebbero i reagenti in grado di innescare nella mente di Sartorio la storia bislacca e spassosissima della resurrezione dell’Urbinate, presentata come un dato di fatto nel capitolo d’avvio e a poco a poco ricondotta alla sua causa intradiegetica: un fulmine caduto in tempesta proprio sulla memoria marchigiana, animata dall’elettricità celeste come un angelico mostro di Frankestein.
A queste ragioni polemiche vanno però aggiunti stimoli non meno rilevanti, che pertengono invece a motivazioni di carattere squisitamente poetico avendo a che fare in maniera più diretta con la biografia dello scrittore, con l’evoluzione del suo linguaggio figurativo a cavallo di due secoli, fra il trittico delle Vergini e i grandi fregi dipinti lungo il primo quarto del Novecento.
Sempre nelle già citate Confessioni è infatti lo stesso Sartorio a dichiarare quanto negli anni di elaborazione di Romae Carrus Navalis – certo attraverso il contatto con il mondo germanico (e con il magistero di personalità della fatta di Arnold Böcklin) – la propria ispirazione stesse abbandonando la fede pateriana, la squisita anglofilia educata in una serie curiosa di permanenze al di là della Manica, per rivolgersi piuttosto ad altre fonti, legate indissolubilmente alle radici di un’appartenenza identitaria.
«Mi proposi di conoscere oltre i preraffaelliti tutta la produzione secolare; mi misi a girare per le città ed i musei d’Europa col desiderio di conoscere in modo esauriente tutta l’arte. Risultato di questo duello fu il dittico de la Gòrgone e gli Eroi, Diana d’Efeso e gli schiavi; (…) mi sentivo fatalmente attratto verso le forme della rinascenza italiana, appunto come gli artisti del Rinascimento si sentirono attratti verso l’arte classica».
Il ritorno di Raffaello va allora letto nella forma del manifesto militante, seppur nascosto sotto al ludico travestimento di una narrazione divertita e salace: anzi, in tal luce, il rebus concettoso e straniante del «romanzo a chiave» assume una necessità pura, nella declinazione di un’invettiva che – ancora ignara della esplicitezza tagliente cara agli annunci avanguardisti – cela la propria partigianeria dietro al piacevole inganno del mito e delle ‘fole’.
Come già ricordato da un autorevole esegeta della letteratura sartoriana – quel Riccardo d’Anna autore di uno studio definitivo quanto Roma preraffaellita (1996) – il corpus dell’artista deve essere «valutato entro una dimensione circolare del processo creativo»; ed è quindi forse anche per questa tessitura meta-critica che Palma Bucarelli avrà avuto in odio la partitura raffaellesca imbastita dal pittore, stroncata al momento di scrivere il profilo di Sartorio per l’Enciclopedia Italiana Treccani. Nella pettegola faziosità delle trovate, nell’irriverente cicaleccio dei personaggi, il volume gli avrà richiamato alla mente l’inesausta, urticante litigiosità della sua Roma, lasciandola irritata di fronte all’immutabilità del tempo e degli uomini.

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