Nell’agosto del 1518 Giovanni Battista Branconio dell’Aquila acquistò un terreno su via Alessandrina, a Roma, a pochi passi dalla Basilica di San Pietro e dal Palazzo Apostolico e, nel giro di due anni, su questo lotto sorse un magnifico palazzetto disegnato per lui da un caro amico: Raffaello Sanzio. Con l’elezione al soglio pontificio di Leone X de’ Medici, solo cinque anni prima, l’orafo Branconio era divenuto suo cubicolario, entrando così nella più stretta cerchia dei sodali del papa e acquisendo enorme prestigio economico e sociale.
La dimora progettata per lui da Raffaello, visibile dalle Logge vaticane, aveva una magnifica facciata decorata con marmi policromi, probabilmente anche antichi, e medaglioni realizzati in stucco da Giovanni da Udine, che replicavano monete antiche e medaglie, una delle grandi passioni del padrone di casa. Una facciata che era anche un’erudita dichiarazione politica, perché posta in un punto nevralgico della città, teatro delle processioni pontificie: manifesto pubblico delle passioni e delle possibilità del privato che abitava quella dimora.
Quello di palazzo Branconio è uno dei casi abilmente ricostruiti nella mostra Raffaello Nato architetto, curata da Guido Beltramini, Howard Burns e Arnold Nesselrath, nelle sale di palazzo Barbarano a Vicenza, dove ha sede il Palladio Museum (fino al 9 luglio, catalogo Officina Libraria, e 30,00). Il percorso espositivo racconta la complessità di mettere in mostra delle assenze. Palazzo Branconio, come altri degli edifici progettati dall’artista urbinate, non esiste più, perché demolito alla metà del Seicento per fare spazio al colonnato berniniano. Quello che va in scena a palazzo Barbarano (e la metafora teatrale calza con l’allestimento curato dall’architetto e regista Andrea Bernard) è il risultato di un lungo lavoro di studio sui rari disegni raffaelleschi di architettura e sulle testimonianze grafiche successive che hanno permesso ai curatori della mostra di restituire al pubblico valide ipotesi rese concrete dai plastici costruiti per l’occasione.
Gli ambienti della mostra diventano così un vero e proprio laboratorio di architettura, tra tavoli retti da cavalletti, riproduzioni dei disegni degli edifici corredate di fogli di acetato con la spiegazione dei singoli elementi (maneggiabili ed estremamente utili per il visitatore), testi di sala e didascalie chiare e comprensibili.
I materiali grafici provengono da diversi prestatori nazionali e internazionali, come il Royal Institute of British Architects, dal quale giungono molti disegni, tra cui il foglio sul quale Raffaello tracciò a inchiostro bruno e penna rossa l’interno del Pantheon, vera apertura della mostra ed essenza delle due anime inscindibili dell’artista, l’essere contemporaneamente pittore e architetto. Raffaello nato architetto, dunque, Raffaello che nello studiare la composizione delle sue scene dipinte è un impeccabile organizzatore di spazi, Raffaello che nel riprodurre sul foglio i particolari architettonici del Pantheon presta però estrema attenzione ai chiaroscuri creati dalla luce sulle sporgenze della trabeazione e legge l’architettura come un dipinto.
Il disegno del Pantheon introduce alla sezione della mostra dedicata alle antichità romane, fonti primarie e serbatoio essenziale di forme per comprendere l’artista, che le studiò attentamente anche in virtù del suo ruolo di praefectus marmorum et lapidum omnium, ovvero custode delle antichità. Questo incarico lo portò a mettere a punto un metodo di rilievo sistematico, tramite la riproduzione grafica di pianta, alzato e sezione, che è un metodo di catalogazione precisamente corrispondente a quanto si fa ancora oggi. Queste puntuali registrazioni delle preesistenze architettoniche della Roma antica fecero in modo che Raffaello ne percepisse le fragilità, tanto da scrivere assieme a Baldassarre Castiglione, negli ultimi mesi del 1519, la famosa lettera al pontefice Leone X, nella quale sottolineava la necessità di tutelare e salvaguardare quel patrimonio.
La sezione romana, così come tutta l’esposizione, è supportata da dispositivi tecnologici: video proiettati sul muro (quasi una firma del museo) e mappe che raccontano l’evoluzione della Roma pontificia, ma anche un visore per la realtà aumentata che rende immersiva l’esperienza nell’architettura raffaellesca. Nelle sale i casi di studio sono tanti e la documentazione articolata, si soffre solo un po’ lo spazio ristretto di alcuni ambienti.
Il progetto per la maestosa Villa Madama, alle pendici di Monte Mario a Roma, è un saggio di filologia classica, dal quale è stato realizzato in mostra un grande modello che combina l’invenzione dell’Urbinate con il disegno di Antonio da Sangallo il Giovane e restituisce una articolata villa all’antica. Il plastico, confrontabile con il grande disegno esposto vicino, mostra livelli diversi che abitano la collina, giardini, portici, persino un grande anfiteatro, questo, mai realizzato. Poco distanti sono esposti disegni della bottega di Raffaello, con l’alzato della parete del cortile rotondo, ma anche la pianta che Andrea Palladio tracciò quando fu a Roma con Giangiorgio Trissino nel 1541, testimonianza cruciale dell’ammirazione che l’architetto attivo a Vicenza nutriva per l’artista di Urbino e, in un certo qual modo, spiegazione della ragione per cui la mostra è allestita al Museo Palladio: Andrea Palladio senza Raffaello architetto è davvero difficilmente comprensibile.
I curatori ricostruiscono poi le Stalle Chigi, volute dal banchiere Agostino, un luogo dove il colto senese allevava cavalli di razza, in via della Lungara. Demolito nel 1808, di questo complesso non resta che il muro di cinta, ma i disegni autografi di Raffaello e quelli successivi di anonimi che ne registrarono le forme, hanno permesso la ricostruzione di quello che doveva essere l’aspetto dell’edificio, con un dubbio sul terzo ordine, espresso mediante la creazione in plastico di due possibili soluzioni.
Palazzo Alberini, invece, si staglia ancora oggi su via del Banco di Santo Spirito nel suo aspetto originario e, stando a quando scritto da Vasari nella Torrentiniana, fu realizzato da Giulio Romano a partire dai disegni di Raffaello. Fu solo un caso, ovvero il fatto che l’artista avesse usato per tracciare le linee di questo palazzo un foglio sul quale aveva già disegnato Dio che appare a Mosè, a permettere di confermare il testo vasariano. Al rovescio del foglio appena citato, infatti, Raffaello traccia lo schizzo di una aggettante cornice con mutuli, che si ritrova puntuale sulla facciata di Palazzo Alberini e che incombe sopra la testa del visitatore al quale è restituito, così, anche il corretto punto di vista.
L’esposizione si chiude con il palazzetto che Raffaello aveva progettato per sé stesso presso via Giulia, acquistando solo due settimane prima di morire un lotto di terreno, dove aveva ideato due residenze magistralmente compenetrate, la propria e quella per i suoi collaboratori, purtroppo mai costruite.