Raffaele La Capria, la vista subacquea della letteratura
ADDII Muore all’età di 99 anni, lo scrittore traduttore e sceneggiatore. «Ferito a morte», romanzo del 1961, è meditazione e rappresentazione anti-oleografica di Napoli. Tra i suoi libri: «L’armonia perduta» (1986), «Capri e non più Capri» (1991), «L’estro quotidiano» (2005). Ci ha detto di come il fulgore delle cose stia nelle loro superficie, e di come, nell’arte del narrare, non soltanto la sottrazione è importante, ma, con essa, anche l’aderire delle parole alle cose
ADDII Muore all’età di 99 anni, lo scrittore traduttore e sceneggiatore. «Ferito a morte», romanzo del 1961, è meditazione e rappresentazione anti-oleografica di Napoli. Tra i suoi libri: «L’armonia perduta» (1986), «Capri e non più Capri» (1991), «L’estro quotidiano» (2005). Ci ha detto di come il fulgore delle cose stia nelle loro superficie, e di come, nell’arte del narrare, non soltanto la sottrazione è importante, ma, con essa, anche l’aderire delle parole alle cose
«Chiamiamolo Candido. Classe 1922. Nasce da una famiglia di media borghesia, in un ambiente di media cultura, in una città di media importanza: lui stesso diciamo che è di media intelligenza. Per una non trascurabile fatalità nasce con lui anche il fascismo». Così, di se stesso, Raffaele La Capria, la cui opera abbiamo imparato a leggere meglio man mano che ci si allontanava dall’exploit del 1961, quel Ferito a morte che è insieme romanzo, meditazione, sperimentazione e presa di distanza da queste stesse cose attraverso una rappresentazione anti-oleografica di Napoli, invece vista subacquea, a fasci di luce radenti o distanti. E lo stile, di una calma tutta nervi è da allora andato mutandosi insieme ai temi, veleggiando verso una calma saggia per quanto inquieta.
LA CAPRIA si è servito dell’arte di togliere, di sottrarre: e di sottrarre a tutto, anche alla presunta profondità; ci ha spesso detto di come il fulgore delle cose stia nelle loro superficie, e di come, nell’arte del narrare, non soltanto la sottrazione è importante, ma, con essa, anche l’aderire delle parole alle cose, fino a che le parole sono gli oggetti o le cose che rappresentano. Non, come dice una similitudine che La Capria ha spesso addotto a esempio, non descrivere il canto del canarino, ma essere quel canto stesso è ciò che distingue la grande letteratura dalla semplice pratica di scrittura.
Nel lungo commento ai fatti del mondo che è intervenuto dopo quell’unico romanzo (e insieme a poco altro che si possa definire «narrativo»), La Capria ha messo a punto una vena saggistica dalla quale si possono estrarre alcuni punti, ma tenendo presente che quei punti estratti vanno posti – per una retta comprensione – l’uno accanto all’altro: vederli separatamente può non essere disutile, ma è un’altra cosa.
Tutto ebbe inizio in modo riconoscibile con L’armonia perduta, a metà degli anni Ottanta, quando La Capria mise a nudo per la prima volta, almeno al pubblico più grande di quello dei suoi privati corrispondenti, in che cosa consisteva la «ferita» di Napoli (un antefatto, molto sbilanciato sul piano letterario rispetto a quello civile è da considerarsi False partenze, di dieci anni prima).
In seguito, iniziano quei punti che si diceva: grimaldelli – ma lievi – per accedere a qualche momento di verità: Letteratura e salti mortali, spiegando come un racconto ben riuscito somigli a un tuffo ben riuscito (o viceversa: La Capria è stato un tuffatore) diceva anche qualcosa contro gli orpelli e le opere che, per essere comprese, hanno bisogno che sia loro accluso un libretto di istruzioni.
La Capria ha voluto per sé come autore e come lettore opere la cui fattura e il cui andare fosse somigliante all’andare dell’anatra: che sembra scivolare sulla superficie del lago, ma, se vai ad affacciarti sotto il pelo dell’acqua, ti accorgi con sguardo subacqueo quanto quel semplice scivolare sia l’effetto di movimenti complicatissimi. In un’opera, è la domanda, devono vedersi quei movimenti, quei meccanismi che l’anatra esegue, oppure deve vedersi solo lo scivolare? Deve vedersi l’effetto o la macchina che lo produce? (Si sa che qui risiede una dicotomia insanabile delle arti, soprattutto nel Novecento).
All’una e all’altra vena, quella di Napoli e quella del resoconto intorno ai sentimenti morali (come si può definirla con un certo arbitrio) hanno fatto seguito vari titoli: Capri e non più Capri e L’occhio di Napoli da una parte; La mosca nella bottiglia (sui limiti del conoscere e della libertà), Il sentimento della letteratura, Lo stile dell’anatra dall’altra. Ma farebbe torto a La Capria la sottovalutazione di una vena tra il memorialistico e il saggistico che è affiorata più netta nell’ultimo tratto del suo scrivere e del suo vivere centenario.
Fedele alle amicizie, La Capria non ha smesso di ricordare persone, luoghi e situazioni del suo passato, cogliendone ogni volta il presente, la persistenza dentro ciò che chiamiamo esperienza. L’estro quotidiano, A cuore aperto (dove raccontava con chiarezza e disincanto l’operazione chirurgica alla quale aveva dovuto sottoporsi in età già avanzata), Doppio misto (il sorprendente, fresco e partecipe racconto di una sua passione erotica giovanile – degno di Tanizaki – che aveva la forza di una confessione quasi senza riconoscere il peccato).
TRA QUESTE rievocazioni (si starebbe per dire non nostalgiche se non quando anche la nostalgia si fa – invece che, come spesso capita, rimpianto – Guappo, il cane che a lungo, durante le camminate, gli dettava il passo, come un maestro di vita; e il Candido che di La Capria ha attraversato l’opera, fin da quando osservava che, come con Guappo, sono le cose i fatti gli esseri viventi (uomini, animali, città) a portare le parole, non viceversa. In Capri e non più Capri si poteva leggere: «Una piccola spiaggia di sassi bianchi nascosta tra i chiari anfratti cilestri e gli scogli bordati di sottili trasparenze sottomarine. Il mare rotola i sassi, e i sassi strisciano col rumore secco del ghiaccio tritato. È il solo rumore scandito dal ritmo lieve dell’onda, vitrea all’abbrivio. Ogni sasso è liscio come un uovo, duro e compatto, levigata perfezione senza residui, che incanta. Trovare parole simili a questi sassi, precise e in sé concluse, fatte per dire solo quello che dicono, inventare un modo di disporle casuale e armonico come la bellezza di questa spiaggia: fu il primo breviario di estetica qui appreso».
E dunque: si tratta di un Candido che, fin dalla propria origine, come si è visto all’inizio, esige di riconoscere oltre che il senso delle parole e delle cose, anche il senso della storia – intravisto magari in un fatto privato – che c’è e che è sempre sul punto di svanire, come leggiamo in Posillipo ’42: «Negli anni che seguirono quell’estate del ’42, gli anni della guerra e poi della pace, gli anni del mio cammino nel mondo, non trovai più lo stato di grazia di allora, quello mio e quello del mare, fu perduto per sempre il mio equoreo Eldorado. Da allora in poi fu continuo il decadere della bellezza, un continuo inarrestabile scadimento; e se ancora qui ricordo quell’estate del ’42, è perché la guerra, con tutti i suoi lutti e le sue rovine, alla fine è passata.
Ma la degradazione di cui parlo si è diffusa sempre più, si è estesa a macchia d’olio. E così da quell’estate il mondo è per me diviso in due: quello di prima del ’42 e quello di dopo il ’42. E mi accorgo che quell’estate fu davvero insolita, fu non solo una tregua ma uno spartiacque fra due epoche che si dissero addio per sempre, e dunque anche per questo fu memorabile: ma in nessuna storia questo fu registrato».
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SCHEDA. La scrittura a tutto campo, da Francesco Rosi a Lina Lina Wertmüller
Nella sua lunga vita, Raffaele La Capria ha sceneggiato e co-sceneggiato diversi film per altrettanti registi. La prima esperienza è del 1961 con «Racconti dell’Italia di ieri – Terno secco», regia di Gilberto Tofano. Nello stesso anno firma la sceneggiatura di un altro film, «Leoni al sole», per la regia di Vittorio Caprioli.
Un anno dopo, nel 1962, per la serie «Racconti dell’Italia di oggi», scrive insieme a Mario Soldati i testi per «La finestra» (tratto da un racconto di Soldati), per la regia di Silverio Blasi. È però del 1963 l’esperienza forse più segnante con la collaborazione riguardo «Le mani sulla città», diretto da Francesco Rosi con cui prosegue anche nel 1967 per «C’era una volta», poi nel 1970 per «Uomini contro», ancora nel 1979 per «Cristo si è fermato a Eboli», infine nel 1992 per «Diario napoletano». Nel 1969, dall’incontro con Luigi Comencini, Raffaele la Capria sceneggia «Senza sapere niente di lei». «Identikit», con la regia di Giuseppe Patroni Griffi, è invece del 1974. «Sabato, domenica e lunedì», regia di Lina Wertmüller (1990); sempre per lei scrive riguardo la pellicola del 1999, «Ferdinando e Carolina»; «Una questione privata», regia di Alberto Negrin (1991).
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