Rachel Kushner, dallo strip club alla cella, le condanne della povertà
Scrittrici americane Mentre con linguaggio crudo e realismo brutale racconta storie di detenute, Rachel Kushner fa coesistere, in continui flashback, il passato remoto e quello più recente: «Mars Room», da Einaudi
Scrittrici americane Mentre con linguaggio crudo e realismo brutale racconta storie di detenute, Rachel Kushner fa coesistere, in continui flashback, il passato remoto e quello più recente: «Mars Room», da Einaudi
Tra i più scalcinati di San Francisco, Mars Room (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, pp. 332, € 20,00) è uno strip club, un circo, il locale peggiore e più equivoco della città, se non dell’intera California, almeno stando a Romy Hall, principale voce narrante dell’ultimo romanzo di Rachel Kushner, spesso accostata a Jennifer Egan per le sue doti di narratrice e la cui precedente fatica, I lanciafiamme, fu molto apprezzata da Jonathan Franzen e George Saunders.
Grazie al Mars Room, Romy Hall, ventinovenne e madre single, sbarcava il lunario con la lap dance. Non il massimo della vita, certo, ma sculettare e spogliarsi le permetteva di comprare ciò che voleva, in particolare la droga con cui si sballava, spesso leggendo libri in biblioteca. Finché non è rimasta incinta.
A quel punto ha smesso di farsi, senza però mollare il Mars Room, che alla lunga si è rivelato la sua condanna. Uno dei clienti si è a tal punto incapricciato di lei da trumutarsi in uno stalker e costringerla a ucciderlo; la giovane spogliarellista si è ritrovata con due ergastoli sulle spalle, passando dallo strip club più equivoco della città a Stanville, carcere immaginario dello stato della California ma fin troppo simile a istituti esistenti.
La parola d’ordine di Kushner sembra essere realismo. I tentativi di smorzare, dolcificare, aggraziare la brutalità sia del contesto sia del linguaggio sono pressoché nulli. Malgrado l’alternarsi serrato delle scene e la ricerca insistita di battute a effetto ricorda a volte i meccanismi, ormai fin troppo prevedibili, delle serie televisive: siamo parecchio lontani da una jail-comedy alla Orange is the new black. A tratti si ha perfino la sensazione che la narrativa romanzesca sconfini in una ricostruzione giornalistica della vita carceraria, una denuncia corredata da testimonianze dei princìpi che fondano il sistema penitenziario americano, a cominciare dal più evidente, l’estinzione dell’individualità.
Il terminale degli esclusi
«La prima volta che vedi migliaia di persone vestite tutte allo stesso modo fa davvero molto effetto» osserva Romy, che impara presto anche un’altra cosa all’apparenza opposta, ovvero che, quanto a regole e gerarchie, le celle di Stanville non sono poi tanto diverse dal camerino di uno strip club: pensa agli affari tuoi e non dire a nessuno il tuo vero nome. E probabilmente è per questo che il romanzo ha per titolo il nome di quel locale nonostante sia soprattutto una storia di detenute: perché ci sono luoghi e esistenze, fuori delle prigioni, somiglianti alla vita che ci conduce dietro le sbarre, quasi ne costituiscano una anticipazione.
Traslato nell’America di Rachel Kushner, il paradigma di Anna Karenina si mostra in tutta la sua falsità. Non sono le vite felici e realizzate a somigliarsi, bensì quelle dei disperati senza destino. L’estinzione dell’individualità significa di fatto non essere ammessi alla grande corsa della realizzazione personale, il sogno americano: si è uguali a tanti altri perché si è destinati a non emergere, il carcere non è che il logico terminale di ogni escluso e la divisa dei detenuti, quell’arancione identico per tutti, sta in fondo a indicare che semmai si sia davvero uguali di fronte alla legge, lo si è ancora di più nella sparizione, nell’invisibilità dei sommersi.
Dal momento in cui entrano in carcere, pur nella grande varietà di storie che hanno alle spalle, le detenute di Stanville diventano la dimostrazione vivente di un’unica verità: quanto sia difficile essere povere e donne in America.
Alimentato da flashback continui e frammentari, il romanzo si presente come un flusso temporale all’apparenza caotico in cui il passato più remoto e quello più recente coabitano e si mescolano senza soluzione di continuità. Che ripensi all’infanzia o a fasi più adulte della sua vita, Romy Hall vede la città in cui ha vissuto sempre allo stesso modo, come un luogo maledetto, senza nulla di bello: «Sapevo che chiunque altro al mondo considerava il Golden Gate Bridge una cosa straordinaria, mentre per me e i miei amici non contava niente. Noi volevamo sballarci e basta». E la droga non è certo un ponte per i miti della controcultura, le bandiere alternative e i poeti beat. Si accompagna piuttosto al mare di vetri rotti fuori dei pub e nelle piazzole e soprattutto alla nebbia che ritorna ossessivamente come un simbolo meteorologico della predestinazione all’invisibilità.
Deragliamenti della vita
Con abbondanza di dettagli e sguardo partecipe che tuttavia non assolve nessuno, Kushner descrive un paese dove non si è liberi e tantomeno innocenti; basta nascere in una certa strada piuttosto che in un’altra, in una famiglia piuttosto che in un’altra, per diventare colpevoli prima di qualunque sentenza e prima ancora di qualunque reato. Il carcere – un luogo in cui tutti, detenute e agenti di custodia, sono prigionieri delle circostanze – non è che la proiezione esasperata, la lente d’ingrandimento del mondo esterno, di quelle storture sociali che a loro volta sono una copia infedele della vita, la vita che «non deraglia dai binari perché è i binari, va dove va».
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