Tutto comincia nel 2005 col progetto di un format sostenuto in produzione da un network di festival europei, l’idea era di lavorare intorno a un tema declinato ogni volta secondo il luogo in cui veniva rappresentato. Da allora Family Affair ha attraversato molti Paesi, dalla Francia alla Polonia al Portogallo all’Italia e mantenendo il dispositivo di partenza ha accolto a ogni passaggio nuove storie. «Continuavano a chiedercelo, noi ci siamo appassionati perché è un progetto che si lega al nostro spirito antropologico e documentario e così siamo arrivati in Cina, poco prima del lockdown, a Hong Kong e a Shenzhen, invitati dalla Biennale di urbanistica, dove però abbiamo presentato una versione solo installativa con più schermi, che poi sarà la forma finale di Family Affair, in cui sono raccolti gli incontri di tutte le altre città» racconta Anna de Manincor che insieme a Massimo Carozzi ha realizzato questo nuovo lavoro di Zimmerfrei, il collettivo di artisti nato a Bologna nel 2000.

Quella del «site specific» è una ricerca che attraversa la produzione di immagini del gruppo – basta pensare a qualcuno dei loro film come La ville engloutie, su Chalon, la città che era stata della Kodak e dei cantieri navali o Almost Nothing sul Cern in cui dall’istituzione spostano lo sguardo alla comunità che vi si aggrega – e che ritroviamo appunto in Family affair al centro del quale però come punto fermo c’è la famiglia di cui si esplorano le possibili relazioni – maternità, confronto tra generazioni, paternità, fratellanza … – che anche i luoghi determinano o influenzano. «Ogni situazione ha prodotto qualche cambiamento, nelle risposte e anche nella costruzione del lavoro, a Ghent per esempio abbiamo deciso di fare un lungo episodio su una sola famiglia» dice ancora de Manincor.

Nel caso del Family Affair realizzato a Santarcangelo a stravolgere il dispositivo è arrivata la pandemia che ha obbligato a modalità di lavoro nuove ponendo anche altre domande a una convivenza mutata, amplificata dal lockdown, costretta al confronto con una realtà inaspettata. Ma cosa è Family Affair? Una storia di famiglia appunto, o meglio tante storie famigliari polifoniche dentro le quali chi parla non è mai il diretto interessato ma dà la voce a qualcun altro, una nonna, una mamma, un nipote, una figlia di cui «usa» le parole che non sono però le sue, dice le emozioni, l’esperienza, i desideri in una prima persona «a distanza», qualcuno che ascoltiamo sul palco, qualcun altro nei video. In scena stavolta ci sono sette famiglie che vivono nella cittadina, ne parlano con affetto, nominando i luoghi quasi fossero delle persone amiche, una coppia, lei è marocchina, lui romagnolo che si è convertito all’Islam, una famiglia siriana che ha ricostruito una memoria comune radicata qui dove è cominciata la loro nuova vita, nel bus col quale sono arrivati, nella prima casa che li ha accolti, nel mercato dove hanno iniziato a lavorare. Gesti semplici, e insieme preziosi nel racchiudere un’esistenza.
C’è poi un’altra famiglia che prima abitava a Riccione, spettatori «incalliti» del festival, le parole si alternano, si mescolano nella nostra percezione, disegnano affinità in una dimensione che tutti conoscono e che dentro e oltre il quotidiano diviene gesto d’arte.

Perché la famiglia? Cosa vi ha portati a sceglierla come soggetto da cui iniziare questo lavoro?
La famiglia è uno dei grandi motori narrativi del teatro antico, e in fondo anche noi come gruppo siamo una famiglia, forse un po’ disfunzionale, ma io e Massimo Carozzi lavoriamo insieme da 22 anni, non siamo una coppia ma un duo lavorativo e questo tempo è forse maggiore di quello che unisce tante coppie che conosco. Ci sono dinamiche famigliari anche se non si è una famiglia in senso tradizionale e poi: cosa significa oggi «famiglia»? Possono essere elettive, allargate, ricomposte, intermittenti, radicarsi in posti in cui si arriva per caso o per necessità e che portano a ripensare le convivenze. In questo nuovo «episodio» c’è naturalmente la realtà della pandemia che ha prodotto a sua volta una nuova forma di coabitazione: come ci si organizza in uno spazio tutti insieme come forse non si è mai stati? Però Family Affair non vuole essere un ritratto sociologico di Santarcangelo né un’indagine psicologica sui rapporti famigliari, abbiamo lavorato insieme ai protagonisti un mese, quando è iniziato il lockdown e siamo stati costretti a procedere a distanza sperimentando un metodo diverso.

Quindi al di là del vissuto familiare la pandemia ha modificato anche il vostro approccio?
Non in modo sostanziale ma per la prima volta non abbiamo potuto provare tutti insieme. Le famiglie che si conoscevano riuscivano a incontrarsi, con gli altri siamo andati avanti separatamente, entravano in relazione col video, l’audio, i microfoni, diventando parte soprattutto di un ingranaggio audiovisivo. Questo ha prodotto una cerchia di esperienze più grande e al tempo stesso più asciutta.

Come scegliete le persone con cui lavorare?
Sempre attraverso il festival che è legato all’episodio. Non abbiamo mai fatto dei casting, non vogliamo vedere qualcuno per poi dirgli di no. Può accadere che incontriamo delle persone tramite contatti che ci vengono dati da chi ci è stato segnalato ma per qualche motivo non può partecipare, allora si segnala un vicino di casa che è bravo a narrare storie e via dicendo. È anche successo che qualcuno ha dovuto rinunciare all’ultimo momento, un ragazzo per esempio è rimasto solo nel video perché è stato assunto da Amazon e l’orario di lavoro non gli permetteva di stare in scena. Molti accettano perché è un modo per passare del tempo insieme – che non è una cosa scontata. Noi partiamo sempre da due domande, chi sono i componenti della famiglia e di dirci un episodio condiviso insieme a qualche famigliare, da lì continuiamo a parlare. Nel presente della quarantena abbiamo notato che non si producevano storie iconiche ma al contrario affiorava una quotidianità all’ennesima potenza, le coppie ci dicevano di quando si erano conosciuti, e sembrava che la domanda più comune fosse proprio come è cominciato tutto questo? Persino i bambini sembravano chiedersi questo: perché sono qui? In che modo ci sono arrivato?

L’io narrante a un’altra persona, le storie raccontate cioè non appartengono a chi le racconta ma a un altro componente della famiglia. Perché questa scelta?
Volevamo evitare una sovraesposizione delle persone non potendogli offrire gli strumenti per stare sulla scena in così poco tempo. Nessuno è un attore. Con questa modalità è come se prestassero la voce a qualcuno che conoscono bene che non viene messo davanti al pubblico il quale a sua volta si trova in una condizione di ascolto più che di visione.