Finito a insegnare arte in un villaggio dell’Anatolia orientale, Samet (Deniz Celiloglu) è il ritratto perfetto del professore frustrato. Le sue lamentazioni, sorprendentemente familiari (evidentemente la frustrazione è la stessa a tutte le latitudini), partono da spunti disparati, ma approdano sempre alla constatazione di dispensare vanamente la propria conoscenza a studenti privi di curiosità e sensibilità. Anche il contorno dei colleghi, disegnato con divertita perfidia, sembra la versione mediorientale della Scuola di Luchetti e Starnone, con le manie burocratiche di alcuni che si accompagnano alle civetterie delle altre, mentre su tutto domina sciatteria e, a ricordarci che siamo nella Turchia di Erdogan, un impasto di autoritarismo e corruzione che tutto tiene e tutto insabbia.

IN REALTÀ pure Samet è tutt’altro che un insegnante impeccabile. Più che per le scorrettezze che gli vengono addebitate, a colpire è la sua incapacità di interpretare con un minimo di lucidità il proprio mandato pedagogico: confonde attenzione con confidenza e soprattutto si dimostra incapace di trovare la giusta distanza (o meglio una qualsiasi distanza) dai propri allievi, passando dall’affetto al rancore nel giro di poche ore come fosse lui stesso un preadolescente.
Interessante è però vedere come questa materia da commedia venga raffreddata da Nuri Bilge Ceylan che adotta la sua collaudata modalità di messa in scena, fatta di larghe inquadrature e di piani ininterrotti, all’interno dei quali i personaggi devono innanzitutto trovare il modo in cui stare nello spazio e interagire tra di loro impiegando il minimo dei mezzi espressivi. La fissità di una macchina da presa piazzata sempre nel posto giusto permette di dare enorme valore all’aggrottamento di una fronte e alla distrazione di uno sguardo, stabilendo con lo spettatore una complicità che, una volta accettati i tempi lunghi, ripaga con abbondanza di intelligenza e di ironia.

Dopo aver sommessamente divertito lo spettatore per la prima ora, il film però cambia direzione con l’arrivo di Nuray (Merve Dizdar, premiata come migliore attrice a Cannes 2023), una giovane donna che a Samet e all’amico Kenan che la corteggiano impone un confronto finalmente serio e all’altezza delle sfide del presente. Convinta del valore della solidarietà e dell’azione politica, lei avanza obiezioni serissime a Samet che se la cava opponendo la forza poetica di citazioni letterarie scelte con cura: una partita in pareggio nella quale l’intelligenza della scrittura è messa al servizio di un erotismo imprevedibile almeno nella forma, ma che dura lo spazio di una sera per approdare infine a una rivisitazione di Jules et Jim dove, nel sole dell’estate, il narcisismo stravince sulla passione.
Un film pessimista, ma non disperato, con una tenuta narrativa esemplare che, anche grazie alla sapiente articolazione in tre ampi atti, non fa sentire la durata e fa riflettere sulla vita, le sue stagioni e la capacità del cinema di raccontarle. Consigliato.