Cultura

Raccontare il male con la distopia, tra romanzo, fiaba e folklore

Raccontare il male con la distopia, tra romanzo, fiaba e folklore

Narrativa «Il pozzo vale più del tempo» il nuovo libro di Ginevra Lamberti edito da Marsilio. Oggi la scrittrice alla Buchmesse

Pubblicato 44 minuti faEdizione del 16 ottobre 2024

Ginevra Lamberti aveva dato prova di maturità romanzesca con Tutti dormono nella valle (2022, appena tradotto in tedesco per Piper Verlag), anti-saga transgenerazionale ambientata ai margini freddi della società italiana, tra chiusure contadine e conquiste d’indipendenza femminile nel passaggio accidentato alla contemporaneità.

NEANCHE DUE ANNI DOPO, l’autrice di origini venete è tornata in libreria con una storia a dir poco d’impatto che trapianta certi suoi luoghi familiari – la valle, i monti, una casa gialla, un Veneto trasfigurato – in una cornice eco-distopica ulteriormente costituita di elementi autofittizi. In questo Il pozzo vale più del tempo (Marsilio, pp. 272, euro 18) si fiuta un decorso estremo ma plausibile di tendenze già presenti nell’oggi: gli umani sono stati decimati da guerre e cataclismi, e i pochi rimasti sopravvivono in comunità autogestite dove la natura ancora lo consente; il caldo è feroce e arido, solo in inverno la temperatura scende dai cinquanta ai venti gradi, bruscamente e con forti piogge, e la vegetazione ha riconquistato nelle forme più selvatiche spazi ormai abbandonati dall’uomo.
Non c’è più una geografia, se non di prossimità, né un tempo storico: la civiltà è un ricordo vago, reso inutile dalle urgenze della sopravvivenza, e si esprime in quel che rimane degli insegnamenti pratici. L’acqua si trova solo in montagna, dove però c’è poco altro; nei centri abitati è ciò che resta del mondo che fu, ma lì manca l’acqua, sicché il titolo è già chiaro. In parte.

Scopriamo tutto questo seguendo la vita di Dalia, otto anni, che troviamo inizialmente in una specie di ambulatorio, dov’è finita dopo essersi rotta il naso contro un trattore, o almeno questo è ciò che sa dalle due infermiere che si prendono cura di lei e di altre due piccole creature: una ragazzina con la mandibola immobilizzata da una struttura in metallo e il «bambino soporoso», che non dice niente ma reimpara lentamente i gesti.

SOLO UNA VOLTA la madre e la sorella di Dalia vengono a trovarla con il compagno di quest’ultima, ed è l’occasione per infliggerle una cattiveria. Fuori da lì, mentre nel centro abitato spadroneggia un patriarca, un gruppo di persone si è ritirato più in alto nella «Valle scura», dove troverà l’ombra e l’acqua. Quando Dalia viene dimessa, perde di vista i suoi due amici, non ritrova la famiglia e si accasa presso una maestra che le insegna il valore delle storie e come seppellire un cadavere. Dieci anni dopo, alla morte di lei, imboccherà la strada per il bosco, ormai una «foresta», per raggiungere il «villaggio dei pozzi». Qui, oltre a una piccola comunità in cui sopravvivono l’umano e l’accoglienza, troverà una dimora e un ruolo da assistente presso il macellaio Biagio. Al più tardi a questo punto, confrontati con i suoi tratti d’orco, se non ci avevano già parlato le citazioni di Carlo Ginzburg e Agota Kristof in esergo, realizziamo di esser capitati in qualcosa a metà tra la fiaba e il romanzo, il folklore e un’anatomia del male.

A ORIENTARCI in tutto questo è una voce narrante ferma, chiara nella disposizione dell’ordito e nelle titolazioni, quasi a salvaguardare un nitore altrimenti destinato ad affondare nell’orrore. Del resto Biagio è ispirato a un uomo realmente esistito, che secoli fa a Venezia fu sorpreso a macellare trovatelli. Ma è Dalia stessa a un certo punto della vicenda, dopo la scomparsa del primo bambino, a confidare ad Orsola, l’eccentrica signora ritirata in un albergo dismesso cui fa da dama di compagnia, che «c’è troppo male per poterlo trovare tutto in un punto solo». Ed è a questo senso della complessità che il libro attinge per farsi avvincente.

Nella stessa coralità che attornia Dalia, per quanto ogni personaggio abbia un che di esemplare, c’è sempre spazio per l’ambiguità, il tormento interiore, la messa in discussione di certezze manichee. Certo, i cattivi veri sono e restano tali, ma l’orrore, come ricorda Lamberti nel post scriptum, «esiste a prescindere dalle epoche», e «l’eterno ripetersi del sopruso» prende sempre di mira i deboli, a partire dai più piccoli. Ai quali non rimane che custodire in sé un resto di bene, la sorgente interiore che invoca giustizia. È dunque anche questo, il pozzo del titolo: l’oscuro in cui cade chi subisce violenza. Ma il trauma in Dalia, oltre a strutturarne la fragilità, è anche ciò che fa di lei un essere oltremodo relazionale, proteso all’altrui salvazione, mentre tutt’intorno la giustizia brada s’ingegna come può.

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