Per oltre diciotto anni, ogni domenica di campionato fra il 1964 e il 1982 in cui l’Inter giocasse in casa, Giovanni Raboni accompagnava Vittorio Sereni a vederla. Allora San Siro era uno stadio di cemento spartano, quasi senza infrastrutture, e aveva solo il secondo anello.

È probabile che entrambi tacessero e mutamente soffrissero il decorso della partita: ha raccontato una volta il poeta Stefano Simoncelli (romagnolo e juventino, allievo di chi scrisse Gli strumenti umani, ’65, e grande ammiratore di colui che firmò Le case della Vetra, ’66) che Sereni rimaneva in piedi tutto il tempo e che solo un eventuale trasalire o sbiancare, nel silenzio comunque assoluto, tradiva il suo stato d’animo di appassionato secondo l’etimologia che infatti rimanda alla sofferenza psicofisica.

Oltretutto, prima che la passione per l’Inter (cui pure dedicò una pagina bellissima poi compresa ne Gli immediati dintorni primi e secondi, ’83), era il fatto in sé della partita di calcio, nel suo valore emblematico e persino allegorico, a dominarne la percezione come attestano almeno due suoi apici, l’uno in Frontiera del ’41 (e si tratta di Domenica sportiva), l’altro addirittura collocato in explicit a Stella variabile (’81) e si tratta stavolta della in tutto terminale Altro compleanno: in entrambi i casi viene drammaticamente presagito il vuoto di senso e di vita che segue il fischio finale dell’arbitro ovvero l’esplodere dell’estate fra giugno e luglio, periodo allora vietato al gioco del calcio, quando San Siro era un catino deserto e ammutolito.

È probabile che anche Raboni avvertisse una simile alternanza emotiva ma egli ci ha lasciato più che altro delle tracce e dei documenti del suo tifo interista che dopo la morte di Sereni (improvvisamente sopraggiunta il 10 febbraio del 1983) ha trovato un nuovo alveo in casa di Maurizio Cucchi, dove per anni e anni sarebbe andato a vedere le partite in tv.

(Questa dell’amore dei poeti milanesi o lombardi per l’Inter è una storia ancora da scrivere ma certo è impressionante stilare un elenco che comprende, oltre a Luciano Erba e Giampiero Neri, anche Fabio Pusterla, Marco Ceriani, Giancarlo Sissa, Pietro De Marchi, Franco Buffoni, Fabio Scotto e Alberto Bertoni che pure è modenese, mentre tiene per il Milan, quasi solitario dopo la scomparsa di Alfonso Gatto e Franco Loi, quel Milo De Angelis che è solito mandare agli amici vecchie cartoline di San Siro al tempo in cui ci giocavano Liedholm, Tito Cucchiaroni e un imberbe Gianni Rivera).

Ma di imprevista caratura erano gli idoli di Giovanni Raboni come testimonia

Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita Scritti sul calcio 1979-2004 (Mimesis, pp. 140, € 14,00) che raccoglie con la dovizia di un commento puntualissimo le sparse tracce di quella etimologica passione ed esce a cura di un eccellente filologo dell’Università di Udine nonché notorio tifoso interista, Rodolfo Zucco, massimo esperto del poeta milanese di cui curò per i «Meridiani» Mondadori L’opera poetica nel 2006 e per la collana bianca di Einaudi Tutte le poesie 1949-2004 nel 2014.

Disposti nell’arco cronologico che copre l’ultimo ventennio della vita di Raboni, mancato a soli settantadue anni il 16 settembre del 2004, sono in tutto diciannove testi che includono articoli occasionali, usciti su quotidiani e riviste, oltre a un paio di interviste e a cinque poesie fra cui una, vedremo, di pregio assoluto.Quanto al proprio tifo, Raboni dichiara di amare nell’Inter la «imprevedibilità nevrotica» (ciò che nello stereotipo dei quotidiani sportivi è oggi la «pazza Inter») e infatti scrive su l’Unità del 22 dicembre 1982, come si trattasse di una dichiarazione di poetica: «Sono tifoso dell’Inter: non so da quando: forse da sempre (…) I colori nerazzurri si saldarono, per me, all’idea di una felicità festiva, di un’improvvisa leggerezza, all’immagine e al rumore di una folla divertita e appagata, alla sensazione che una cosa fosse andata bene, nel verso giusto…».

Giovanni Raboni, l'Unità, 22 dicembre 1982
«Sono tifoso dell’Inter: non so da quando: forse da sempre (…) I colori nerazzurri si saldarono, per me, all’idea di una felicità festiva, di un’improvvisa leggerezza, all’immagine e al rumore di una folla divertita e appagata, alla sensazione che una cosa fosse andata bene, nel verso giusto…»

E tuttavia l’amore di Raboni, al di là della riconoscenza per alcuni attimi di pura jouissance, vive sotto scacco di una logica paradossale. Egli ammira senza dubbio i grandi campioni, specie della sua prima giovinezza (Nyers, Skoglund, il divino volitante Angelillo del campionato 1958-’59), ma non menziona mai, o solo di sfuggita, la Grande Inter degli anni sessanta, la squadra tanto per intendersi di Facchetti e Mazzola, di Suarez e Mario Corso.

Alle immagini trionfali di quella squadra (e c’è da immaginare, per soprammercato, della stessa Nazionale italiana) il poeta ne antepone altre, molto più remote o autunnali, e arriva a sostenere (sul Messaggero del 24 gennaio 1986) che per lui «il vero tifoso è introverso, pessimista, malinconico, e dal suo essere tale ricava le sue rare, ineffabili gioie».

Sul serio ineffabile, pari al riproporsi della scena madre che sia anche un atto mitologicamente fondativo, è il tornare a cadenza nella sua memoria dell’Inter 1946-’47 classificatasi decima dopo avere rischiato la retrocessione e, a proposito, il 26 gennaio del 2004, sul Giorno in una delle ultime interviste, il poeta che immaginiamo allora quindicenne seduto in gradinata col fratello Fulvio (cinque anni più di lui), confessa una volta di più: «Mi sento un tifoso intimamente interista proprio perché ho cominciato soffrendo».

Giovanni Raboni, il Messaggero, 24 gennaio 1986
«Il vero tifoso è introverso, pessimista, malinconico, e dal suo essere tale ricava le sue rare, ineffabili gioie»

Quella sua squadra primordiale giocava all’Arena, il solenne anfiteatro di via Giorgio Byron che era anche il palcoscenico del calciatore eponimo, Giuseppe Meazza, ma al suo ultimo atto e molto affievolito da cronici malanni. A parte alcuni nomi di un certo rilievo (i nativi Camillo Achilli e Aldo Campatelli) la squadra è per lo più formata da quidam de populo ma proprio a costoro, calciatori presto reietti, andrà l’affetto immutabile, il perenne ricordo di Raboni: poi tante volte rammentati, vi spiccano i nomi dell’attaccante uruguagio Bibiano Zapirain, dall’età indefinita e forse superiore ai quarant’anni, atleta non privo di classe ma afflitto da una leggendaria indolenza, nonché del centravanti argentino Elmo Bovio sempre spaesato come un uccello perso nel freddo, tanto da pretendere di giocare con il basco durante l’inverno.

E chissà che non sia proprio questa l’Inter che insiste sottotraccia in una delle poesie più belle di Giovanni Raboni, quella che comincia con Allo stadio andavamo presto ed è compresa in Ultimi versi, la raccolta postuma amorevolmente messa insieme dalla sua compagna Patrizia Valduga (Garzanti 2006).

La poesia, che apre con un plurale senza scampo, è dedicata al fratello Fulvio, suo antico complice allo stadio. Non vi si allude alla partita vera e propria ma all’antefatto che un tempo era la norma e cioè la partitella fra i ragazzi delle giovanili (i cosiddetti allievi o talvolta i «pulcini» addirittura), un incontro che serviva a preparare l’evento e insieme a smaltirne la paura.

Dunque era una partita prima della partita e pertanto non poteva che essere bella, godibile nella totale spensieratezza non ci fosse stato quel tarlo a insinuarsi, nell’imminenza della partita vera, cioè il terrore della sconfitta. Così ogni tifoso, anche il più ignaro di sé e di ogni sottigliezza psicologica, sa che c’è sempre un momento di compiutezza imprevista, quando la vita è «ancora davanti a noi / con le sue ombre sanguinose, / con il suo cupo carico di gloria».