Rabbini contro le demolizioni di case palestinesi
Cisgiordania Occupata In 400 hanno firmato la petizione di "Rabbini per i diritti umani" che chiede al governo Netanyahu di revocare l'ordine di demolizione per centinaia di case palestinesi costruite "illegalmente" nella zona C della Cisgiordania. Nel frattenpo riparte la colonizzazione israeliana
Cisgiordania Occupata In 400 hanno firmato la petizione di "Rabbini per i diritti umani" che chiede al governo Netanyahu di revocare l'ordine di demolizione per centinaia di case palestinesi costruite "illegalmente" nella zona C della Cisgiordania. Nel frattenpo riparte la colonizzazione israeliana
Quattrocento rabbini di Israele, Gran Bretagna e di altri paesi si sono uniti alle voci che chiedono con forza al premier Benyamin Netanyahu di revocare l’ordine di demolizione di circa 400 abitazioni, strutture ed edifici palestinesi costruiti senza l’autorizzazione delle autorità di occupazione nella zona C della Cisgiordania. Nella petizione, promossa dall’associazione “Rabbini per i Diritti umani”, i religiosi descrivono la decisione presa dal governo contraria al «diritto internazionale e alla tradizione ebraica». Ricordano che migliaia di palestinesi «sono stati costretti a costruire senza permesso» e che «grande sofferenza umana è causata ogni anno dalla demolizione di centinaia di case». Infine sottolineano che Israele ha l’obbligo di garantire il diritto ad avere una casa a tutti coloro che sono sotto il suo controllo. Per Israele quelle case e strutture edilizie vanno demolite perchè sono illegali. Una motivazione che si scontra con una realtà sul terreno. Proprio nella zona C sono situate le colonie costruite da Israele in aperta violazione di leggi e convenzioni internazionali.
La questione della zona C è un’altro dei dolorosi capitoli degli accordi di Oslo raggiunti nel 1993 da Israele e Olp. Con la creazione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) nel maggio 1994, la Cisgiordania fu divisa in tre zone. La A, sotto l’Anp, la B a controllo misto, e la C sotto la piena autorità di Israele. Questa divisione doveva essere temporanea, della durata massima di 5 anni, ossia durare fino alla definizione dello “status permanente” dei Territori occupati e alla nascita dello Stato di Palestina. Come sono andate le cose è noto a tutti. A distanza di 21 anni da quelle intese, sul terreno non è cambiato nulla, se non, in peggio, la vita dei palestinesi. Gli accordi di Oslo che dovevano aprire la strada , all’indipendenza palestinese, almeno nei piani dell’allora leader dell’Olp Yasser Arafat, si sono invece rivelati una gabbia.
La zona C è la porzione più ampia della Cisgiordania, il 60% di questo territorio palestinese, in cui l’esercito israeliano detiene tutti i poteri, a cominciare dalla pianificazione edilizia. E’ popolata da 150mila palestinesi che vivono in 542 comunità. I coloni israeliani giunti dopo l’occupazione nel 1967 sono quasi 350mila e vivono in 135 insediamenti e un centinaio di “avamposti colonici”. Ocha, l’ufficio di coordinamento delle attività umanitarie dell’Onu, ricorda che mentre alle colonie sono assegnate ampie aree per l’espansione edilizia, solo l’1% della zona C è destinato allo sviluppo delle comunità arabe. Circa 5mila palestinesi, specialmente nel sud della zona C, abitano in 38 comunità dentro o nei pressi di aree definite “zone di addestramento militare”, perciò soggetti a pericoli e a forti pressioni affinchè si trasferiscano in altre località. I permessi per le nuove costruzioni palestinesi, anche quando si tratta di scuole o altre strutture pubbliche, sono concessi con il contagocce dalle autorità militari. E nel 2012, ad esempio, 540 edifici (tra i quali 165 abitazioni) sono stati demoliti perchè “illegali” e 815 palestinesi sono rimasti senza casa. E non è insignificante che il 70% delle comunità palestinesi della zona C non siano collegate alla rete idrica, a differenza di tutti gli insediamenti colonici israeliani. Con discrezione, spesso con progetti di ong internazionali, come Oxfam o l’italiana Gvc, l’Unione europea cerca di dare sostegno ai 150 mila palestinesi che vivono nella zona C in condizioni difficli. Progetti umanitari che però Israele ritiene, almeno in parte, “illegali” o comunque usati dai palestinesi per espandersi. Da parte loro i palestinesi ricordano che questa porzione di Cisgiordania fa parte della loro terra e di avere il diritto, alla luce anche del fallimento degli accordi di Oslo, di costruire e sviluppare le loro comunità nella zona C.
E’ improbabile, in mancanza di pressioni internazionali, che il governo cambi la sua decisione di demolire le 400 strutture “abusive”. Netanyahu è un accanito sostenitore della colonizzazione ma pesa anche il voto del 17 marzo. Il premier israeliano non intende offrirsi su di un piatto d’argento per una eventuale accusa di debolezza da parte dei partiti dell’estrema destra, come “Casa Ebraica” che chiede l’annessione della zona C della Cisgiordania. Continuerà perciò la corsa della colonizzazione. Due settimane fa era stata approvata la costruzione di altre 430 unità abitative negli insediamenti. Ieri il giornale Haaretz ha rivelato che l’esercito israeliano ha confiscato 374 ettari di terre in Cisgiordania per espandere quattro colonie – Kedumim, Vered Yericho, Neveh Tzuf e Emanuel – più altri 100 ettari che saranno messi a disposizione degli insediamenti del blocco di Etzion.
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