Quirinale, nel Pd avanza l’ipotesi Draghi contro l’asse dei «due Mattei»
La corsa Letta spinge per il premier al Colle per stoppare le manovre di Renzi e Salvini. Tajani: «In quel caso si torna subito alle urne». Renzi si federa con Toti ma perde senatori
L’ennesimo energico no di Sergio Mattarella all’ipotesi di rielezione al Quirinale sembra avvicinare la salita al Colle di Mario Draghi. Il condizionale è d’obbligo, in una partita nebulosa e intricata che presenta oggettivi problemi: sarebbe la prima volta di un’elezione di un presidente del consiglio in carica.
E TUTTAVIA I SEGNALI di sempre più crescente fibrillazione dentro la maggioranza fanno capire che solo l’elezione di Draghi a larghissima maggioranza potrebbe evitare il caos nei rapporti tra i partiti, la guerra di tutti contro tutti. E dunque solo Draghi, dal Colle, potrebbe garantire un finale ordinato della legislatura. Tutte le altre ipotesi, in primis quella di un presidente di parte eletto dalle destre con il sostegno dei renziani (i nomi più gettonati sono quelli di Marcello Pera e Pierferdinando Casini, ma la carta Casellati resta sul tavolo) sarebbero destinate a squassare il sistema politico, favorendo una crisi di governo e un rapido ritorno alle urne.
QUESTA È ALMENO l’opinione che circola ai piani alti del Pd: Enrico Letta, che ribadisce di non aver mai voluto tirare per la giacca Mattarella, si sta sempre più convincendo della bontà dell’ipotesi Draghi al Quirinale. «Solo così si potrebbe ragionevolmente far durare la legislatura, con un governo di scopo affidato a una personalità super partes», il ragionamento. Che sia l’attuale ministro Daniele Franco o la titolale della Giustizia Marta Cartabia poco importa: per Letta è fondamentale che sul Colle non si rompa l’attuale maggioranza.
L’obiettivo è sedare i giochini dei due Mattei, Renzi e Salvini, che stanno «intossicando» la discussione sul Quirinale e «indebolendo il governo». Letta non ce l’ha particolarmente con Silvio Berlusconi, ma con la coppia dei «guastatori», entrambi in difficoltà politica (Renzi di più) e intenzionati a usare la corsa al Colle per risalire la china.
DI QUI L’ASSE DEL LEADER del Pd con Giorgia Meloni, con cui condivide alcuni punti fondamentali: la volontà di tornare a un bipolarismo destra-sinistra, la predilezione per il sistema maggioritario (anche nella versione attuale) e la comune ambizione di guidare i due schieramenti. Con Draghi al Quirinale questa dialettica democratica potrebbe ripartire, senza per forza arrivare alle urne già nel 2022. Ma senza escluderlo a priori.
Questo disegno presenta però alcuni punti deboli. Il primo riguarda il silenzio dell’attuale premier: se da un lato la sua mancata esplicita intenzione di salire al Colle deve essere letta come garbo istituzionale nei confronti di Mattarella, dall’altro il silenzio di palazzo Chigi sta alimentando le fibrillazioni di questi giorni, finendo per ricadere sull’azione di governo. Per questo da molte parti si auspica che, dopo la manovra, Draghi faccia un passo avanti (o indietro) chiaro.
UN PASSAGGIO INDISPENSABILE per sbrogliare la matassa. Spiega un parlamentare di lungo corso: «Se Draghi continua con questo silenzio la situazione rischia di esplodere. E, ad oggi, senza che lui abbia indicato un percorso per la sua successione a palazzo Chigi, i voti in Parlamento per andare al Colle non li ha. Neppure se tutti i leader glieli garantissero».
Al di là infatti delle lotte tra leader, c’è il tema di un parlamento sempre più ingovernabile: il primo partito, il M5S, è dilaniato dalle lotte interne, ingestibile, e si torna a parlare di nuovi addii tra chi non vuole versare le restituzioni dello stipendio. Anche nel Pd, sotto il velo della pax lettiana, covano ansie e dissapori, a partire da chi teme che l’elezione di Draghi porti dritto alle urne. O chi (come gli ultras ex renziani) fantastica di un Draghi che resti a palazzo Chigi anche dopo il 2023, a un governo senza le ali estreme (M5S e Fdi).
Nei fatti, l’idea di Letta di un ritorno a un confronto destra-sinistra, con il Pd pilastro di un campo progressista, non convince tutti negli attuali gruppi parlamentari dem, scelti da Renzi nel 2018 e ancora permeabili alle fumisterie centriste. O, più prosaicamente, convinti di non essere ricandidati da Letta e pronti a vendere cara la pelle. Quanto a Forza Italia, con Tajani, evoca il voto se Draghi traslocasse, una mossa per non far tramontare il sogno di un presidente di centrodestra (il Cav. o qualcuno a lui gradito).
PER ORA A PERDERE PEZZI è Italia Viva, che ieri ha detto addio al senatore Leonardo Grimani, contrario al matrimonio con il gruppo di centrodestra di Giovanni Toti e Gaetano Quagliariello («Coraggio Italia»): una federazione che sta nascendo per arrivare al voto sul Colle con una massa di manovra di circa 80 parlamentari.
Di fatto, ragionano nel Pd, l’unico modo per evitare una maionese impazzita, con Renzi e soci come aghi della bilancia, è l’elezione di Draghi al primo scrutinio. Tutti gli altri problemi, (a partire dal rebus di un presidente neoeletto che deve gestire la crisi di governo provocata dalle sue dimissioni da premier) si affronteranno.
LE MOSSE DEL PREMIER sono state finora interpretate, da tutti i fronti, come un silenzio-assenso all’ipotesi Quirinale. Anche la gestione del caso “tasse per i redditi più alti” (con lui nella parte di Robin Hood voleva togliere ai più ricchi per dare ai più deboli) è stato letto come un segnale di pace ai sindacati in chiave quirinalizia. Sullo sfondo, l’ipotesi (per ora fantapolitica) di un premier che si dimette prima dell’inizio della corsa al Quirinale, permettendo a Mattarella di individuare il suo successore prima dell’inizio delle votazioni.
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