Quincy Jones: «Il jazz per me è sinonimo di assoluta libertà»
Musica Il concerto del musicista di Chicago apre domani la quarantacinquesima edizione di Umbria Jazz 2018. «L’hip hop si suonava già negli anni ’30 a Chicago. Mai dimenticare le proprie radici»
Musica Il concerto del musicista di Chicago apre domani la quarantacinquesima edizione di Umbria Jazz 2018. «L’hip hop si suonava già negli anni ’30 a Chicago. Mai dimenticare le proprie radici»
È la «sorpresa» che Umbria Jazz si è regalata per festeggiare le sue 45 edizioni. Quincy Jones, berretto con visiera calato sulle ventitrè, sgargiante camicia arancione è un «ragazzo» di ottantacinque anni che da settanta ha legato il suo nome a quello di stelle del jazz e del pop, attraversando la musica in tutte le sue forme, dalle big band alle colonne sonore. Domani sera nell’Arena San Giuliano a Perugia, celebrerà la sua carriera in un concerto dove saranno protagonisti l’Umbria Jazz Orchestra diretta da John Clayton e il supporto di Nathan East e Harvey Mason, che con gli arrangiamenti originali di Jones – supervisionati da lui stesso – eseguiranno brani e standard del suo repertorio. Sul palco si alterneranno poi, presentati da ’The Boss’, artisti che hanno collaborato con lui: Patti Austin, Dee Dee Bridgewater, Noa, i Take 6, Ivan Lins, Alfredo Rodrigez, Pedrito Martinez e Paolo Fresu. «Paolo – sottolinea con voce profonda il genio di Chicago – è una persona e un artista straordinario. In passato ho ricordi importanti insieme a maestri italiani come Piero Piccioni, Armando Trovajoli e Ennio Morricone».
L’uomo Quincy è come la sua musica, aperto, spontaneo e sempre curioso di confrontarsi con le novità. Ha sempre saputo – grazie anche alla lezione di Count Basie, suo mentore e amico – come utilizzare gli spazi e lasciare fluire le note. Pur attraversando un’infinità di stili, è il jazz al centro della sua vita: «Per me significa libertà di improvvisare, libertà di movimento». Una consapevolezza che lo porta in giro per il mondo ad appena 14 anni insieme a Ray Charles: «Per guadagnare qualche soldo suonavamo tutto, jazz, classica, rhythm’n’blues».
Tanti generi e esperienze, certo per il grande pubblico indelebile è Quincy deus ex machina dietro Thriller di Michael Jackson: «All’epoca ho avuto anche forti critiche per essermi accostato a quel disco, ma mi sono scivolate addosso, perché in tutta la mia carriera non ho mai pensato ad inseguire il successo. Se decido di occuparmi di un artista o di un progetto deve prima emozionarmi, a quel punto so che posso trasmettere quella sensazione al pubblico. Poi il caso ha voluto che Thriller vendesse 130 milioni di dischi, ma questo è un altro discorso».
Un palmares infinito: le colonne sonore tra cui The Pawnbroker (L’uomo del banco dei pegni), The Heat of the night, Color porpora di Spielberg, gli album storici per le grandi voci della musica americana: Frank Sinatra, Dinah Washington, Sarah Vaughan, Carmen McRae, Aretha Franklin, Peggy Lee solo per citarne alcune.
Nel 1985 arriva We are the world: un grande episodio di musica pop o un evento che ha aumentato la percezione del pubblico e la sua sensibilità sul tema della povertà del mondo?: «L’idea di fare anche in America un progetto analogo lanciato dal Band Aid inglese di Bob Geldof (nel 1984, ndr), me lo propose Harry Belafonte. Volevamo fare un tour con 40 superstar, ma era impossibile, così ci siamo concentrati su un pezzo coinvolgendo un coro monstre. In realtà avevo fatto un’esperimento simile su State of Independence per Donna Summer (1982), dove avevo chiamato a cantare più di 20 popstar. Alla fine abbiamo raccolto 63 milioni di dollari per l’Etiopia, credo che l’intento sia riuscito alla perfezione».
Per Jones l’importanza di confrontarsi con le radici è fondamentale: «È quello che facevano i miei miti. Ho assistito alle incisioni di Kind of Blue e Miles Ahead di Miles Davis, ricordo l’emozione di ospitare su un mio disco, Back on the Block (1989) Sarah Vaughan e Ella Fitzgerald, morte poco dopo. E vorrei ricordare ai ragazzi che l’hip hop non è nato 30 anni fa, ma esiste da mille anni. Si faceva rap a Chicago negli anni’ 30, si ispira alla cultura degli schiavi e la break dance arriva dalla capoeira brasiliana e da Cuba.».
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