«Qui rido io»: l’eleganza contro la «maniera»
Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
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«Qui rido io» di Mario Martone, un film preziosamente curato sul piano narrativo e del linguaggio visivo, ha come tema, secondo la dichiarazione del regista, la paternità negata. Come ogni opera che va rigorosamente a fondo nel suo tema, lo trascende anche e nel farlo lo illumina meglio. Nel film la questione della filiazione illegittima è messa incisivamente a fuoco dalla figura di un padre, Eduardo Scarpetta, totalmente centrato su di sé.
Essa si intreccia progressivamente con la faccenda della citazione in giudizio -per appropriazione indebita di proprietà letteraria- del commediografo e attore napoletano. Reo di aver parodiato “La Figlia di Iorio”, dramma di Gabriele D’Annunzio.
La parodia dissacra un testo acclamato, restituendolo alla sua natura criticabile. Mette in discussione il suo valore normativo, lo destituisce dal trono e così impedisce che diventi canone.
La parodia può avere un intento di puro divertimento che ottiene liberandoci dell’effetto morale repressivo di un sistema estetico. Può cercare di provocare una catarsi particolare: trasformare il tragico in tragicomico, far vedere il lato ridicolo/assurdo del potere, allontanando il desiderio dalla sua deposizione per paura di una catastrofe. Il riso amaro toglie il velo della mistificazione che avvolge una falsa autorità (fa vedere il re nudo), ma riconosce anche la presa che essa esercita su di noi a causa della sua carica inerziale, ottundente il pensiero e le emozioni.
La parodia tragicomica incoraggia la ribellione, ma segnala anche l’esigenza di un lutto, di una separazione dalle nostre abitudini più conformiste e più solide. Essa non ha neppure bisogno di un altro testo. Le basta un sistema di idee false consolidato. Ne è un esempio il controcanto straordinario che fa della mentalità militare Jaroslav Hasek ne “Il buon soldato Scvèik”.
Per la parodia l’altro testo è sempre un pre-testo, al servizio della sua intenzione di dislocare lo sguardo. La sua legittimazione risiede in questa intenzione, è indipendente da questioni di proprietà letteraria.
In “Qui rido io” il tema dei figli illegittimi si incontra con il tema del padre illegittimo: la pretesa di un padre impostore, incarnata in D’Annunzio, di imporre il “come se”, il “trompe l’oeil” dello spirito, come autorità venerata e indiscussa. Scarpetta nega la paternità ai figli avuti fuori dal matrimonio, perché la nega a se stesso. La sua vena parodica, che vuole smascherare l’arbitrio del padre, in cui egli stesso cade, è iperbolica: andando oltre la mira, lo porta con sé e lo tiene prigioniero. D’Annunzio, invece, l’arbitrio del padre lo impersona in tutta la sua vacuità inafferrabile, crea l’effetto speciale che, pur non convincendo l’anima, impressiona i sensi e addormenta il pensiero.
La funzione del padre sta nella sua modestia, nel senso della misura con cui nelle relazioni di scambio, a partire da quella coniugale, rende possibile la contrattazione paritaria sul piano dei desideri, dei sentimenti e dei pensieri. Nel mondo attuale la tradizionale apparenza che inganna con cui il padre è stato investito di un potere improprio, è diventata “maniera” (pensiero decorativo): una cortina fumogena che fa stentare la satira e la parodia.
L’eleganza di Edoardo De Filippo (il figlio illegittimo che ha raccolto il testimone dove Scarpetta l’ha lasciato cadere), che Martone fa propria, è lo strumento più efficace contro il manierismo. Al posto del “più”, l’eccesso che nasconde, l’eleganza usa il “meno”, la sottrazione che, esaltando, la semplicità dei gesti e la verità delle emozioni, rivela.
“Qui rido io” è un film sulla civiltà del confronto, sulle contraddizioni che dialogano, sulla conversazione, sul senso delle cose che nasce attraverso la sedimentazione dei sentimenti e dei pensieri, sul lutto quotidiano nei confronti delle aspettative e delle consuetudini che rende più chiara la nostra prospettiva sulla vita.
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