Il continuo ricambio nelle direzioni creative dei marchi storici (l’ultimo è la separazione di Massimo Giorgetti da Pucci) porta sempre più l’attenzione su uno dei nodi che la moda del terzo millennio tenta di sciogliere ma continua a ingarbugliare. Questo nodo si chiama «identità del marchio» che, finora, è stato agganciato al mito del Dna e ora si sta appoggiando allo storytelling. Il problema nasce dal fatto che la moda, a differenza di altri prodotti del mass market, per potersi proporre come prodotto di consumo costoso, ha bisogno di un autore. Che, come quello dei libri, delle opere d’arte, del cinema e di tutte le opere dell’ingegno, garantisce per la creatività che esprime. E questo, nella moda, vuol dire che garantisce non solo sull’estetica che propone ma anche sulla qualità, sull’originalità e sull’esclusività.
La moda come sistema di segni e di valori così come dal Settecento è arrivata fino a noi, ha abituato il proprio pubblico, che in una mutazione tacitamente accettata si chiama anche «cliente», a farsi riconoscere per la proposta creativa del suo autore. Sono nati così, dalla fine dell’Ottocento in poi, le famose Maison di Couture francesi che poi hanno imposto il modello a tutto il resto dell’Occidente.
Charles Frederick Worth (metà Ottocento) e Paul Poiret (inizio Novecento) possono essere considerati i fondatori di questo sistema che poi ha visto Coco Chanel nel primo dopoguerra e Christian Dior dopo la seconda guerra mondiale. Comunque, a partire da Madame Bertin, la sarta di Marie Antoinette, le case e i marchi di moda sono nati tutti sotto la responsabilità di un nome.
Questo è anche il motivo per cui negli anni molto più vicini a noi, dalla generazione Anni 60 di Yves Saint Laurent e Emanuel Ungaro, la storia della moda si è sempre ripetuta uguale ma con nomi diversi. La nascita del pret-à-porter e l’unione con l’industria, ha poi portato alla trasformazione in prodotto industriale di un manufatto pensato per essere costruito addosso al cliente in sartoria. Ma anche in quel momento ha prevalso il nome dell’autore. E mentre in Francia nascevano quelli che avrebbero dato la spinta alla contemporaneità (Claude Montana, Thierry Mugler, Jean Paul Gaultier e altri), in Italia si formava il sistema così come lo conosciamo: Valentino, Giorgio Armani, Gianni Versace, Luciano Soprani, Gianfranco Ferré, Romeo Gigli, Dolce & Gabbana, Prada sono nati come responsabili di un progetto industriale ma autoriale.In questi anni ci troviamo, invece, di fronte a marchi che non corrispondono agli autori e a nulla è valso che si spingessero i direttori creativi a tenere presente il DNA per lo sviluppo nella contemporaneità.
In più, se questo richiamo poteva sembrare coerente per i marchi nati per costruire abiti, non doveva esserlo per quelli che alla loro origine hanno le scarpe, le borse e altri accessori e che, solo molti anni dopo la loro nascita, hanno lanciato le linee di abbigliamento. La situazione si è evoluta e ora raccontare delle storie ai propri clienti, cioè fare storytelling, è diventato prioritario rispetto a quel DNA che nessuno ricorda più. Ma la referenza dell’autore è sempre più flebile e il marchio è reputato autentico se e quando è portatore di un valore nell’indifferenza di chi lo costruisce.
Sarebbe opportuno che della situazione ne approfittassero quei pochi stilisti – piccoli e grandi – che stanno lavorando con il proprio nome, nonostante gli ostacoli che, con il loro potere, oppongono i padroni del mercato globale.
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