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Questa piattaforma non s’ha da fare. La Netflix all’italiana

Questa piattaforma non s’ha da fare. La Netflix all’italianaIl ministro della Cultura Franceschini ha proposto la Netflix della cultura

Rimediamo La suggestione di Franceschini ha trovato, non per caso, freddezza nelle categorie del settore e qualche ostilità da parte sindacale

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 9 dicembre 2020

Squilli di trombe, annunci roboanti di 29 milioni di euro, canali in offerta: per annunciare una ipotetica piattaforma tesa a trasmettere attività e iniziative culturali attraverso la rete. Nome in codice: la Netflix della cultura italiana. Sarà vera gloria? C’è da dubitarne. Intanto, è utile vedere le proporzioni delle cose.

La Netflix vera, piattaforma di diffusione in streaming californiana, che nel 2019 fatturava 20,156 miliardi di dollari e investiva nella produzione 12 miliardi, è un potentato di rilievo. Diventata famosa presso il pubblico con serie cult come House of Cards o La casa di carta, la società ha pure scelto, sottraendola alla Rai, la stimata Eleonora Andreatta (per anni direttrice di Rai fiction) per dirigere la parte italiana.

Di fronte ad una situazione già sovraccarica, il ministro proponente Franceschini ha fatto un po’ di conti? Ad esempio, la prima del teatro S. Carlo di Napoli (La Cavalleria rusticana), trasmessa il 4 dicembre on line e su Facebook con un costo di poco più di un euro a persona e con 26.000 biglietti venduti, può diventare la regola? Magari. Infatti, a fronte di un incasso di circa 30.000 euro, i costi di allestimento sono stati almeno tre-quattro volte maggiori. E stiamo evocando un successo clamoroso.

Dalle dichiarazioni ufficiali rese dal titolare dei beni culturali si evince che la nuova piattaforma avrà a disposizione 10 milioni di euro investiti dal ministero, altrettanti dalla Cassa depositi e prestiti (il prezzemolo dell’età post- liberista) e 9 da Chili. Chili, chi è costui? Non è il piatto preferito dal tenente Colombo. Trattasi, piuttosto, di una società in gergo T-Vod (transaction video on demand), fondata nel 2012 – tra gli altri – da Stefano Parisi, del resto noto alle cose della politica e pure delle telecomunicazioni. Peccato che – secondo i maligni – non stia andando a gonfie vele e abbia un fatturato di soli 28,5 milioni di euro. Non solo. Nel capitale fanno capolino Warner Bros, Paramount e Sony Pictures e, quindi, è lecito chiedersi se la piattaforma sarà davvero italiana.

Su aporie e limiti del progetto hanno scritto con cura Giovanna Branca e Cristina Piccino su il manifesto dello scorso giovedì 3. In aggiunta, è bene sottolineare che persino il business plan appare assai incerto. A meno che lo sbocco sia il ripianamento dei conti privati con il denaro pubblico. Del resto, per citare Sergio Leone a proposito del primo Clint Eastwood che aveva solo due posture (con e senza il cappello), la filosofia prevalente conosce pure due sole facce: privatizzazioni o statalismo.

Si pone, poi, un quesito di fondo, che attiene all’industria culturale e audiovisiva italiana. Perché la missione di veicolare lo spettacolo dal vivo nella fase della crisi dovuta alla pandemia non è assegnata al servizio pubblico radiotelevisivo e all’Istituto luce-Cinecittà? La risposta alla domanda inevasa di fruizione culturale è un elemento costitutivo dello stesso concetto di cosa pubblica. Spetta alle strutture pensate per rispondere ai tuoni e ai fulmini del mercato intervenire direttamente. Nulla osterebbe, ovviamente, all’apertura verso interlocuzioni diverse, ma tenendo fermo l’approccio al sapere come bene comune. Per di più, una delle poche novità è RaiPlay, immaginata per navigare nell’infosfera e nell’acqua digitale, sarebbe la titolata aspirante a svolgere simili ruoli.

Magari con intese tra i vari servizi pubblici europei. E insieme a intraprese in fieri a cura degli stessi artisti. La suggestione di Franceschini ha trovato, non per caso, freddezza nelle categorie del settore e qualche ostilità da parte sindacale. Lo spettacolo dal vivo sta morendo ed è indispensabile varare un reddito minimo per chi opera in un così grande e importante comparto. Oltre la logica dei ristori. La questione è entrata nella stessa discussione parlamentare, attraverso interventi e interrogazioni.

Oggi si riunisce presso il Mibact il tavolo con le associazioni categoria in merito alle politiche da assumere nella drammatica situazione che vive il mondo della cultura. Ed è alle porte la definizione dei progetti per il Recovery Fund. Si rimettano, insomma, in ordine gli addendi e le priorità.

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