Per sfruttare la voga dell’hard boiled, nel 1946 Boris Vian si cimenta in un’oltranzistica imitazione del noir americano più truculento, calcando ulteriormente il pedale dell’esplicito. In Sputeremo sulle vostre tombe, attribuito a un inesistente Vernon Sullivan, l’ostentazione del sesso e della violenza contribuisce al successo, oltre che allo scandalo; e l’intento parodico passa non di rado (e non a torto) inosservato, non solo agli occhi dei censori: la sapienza mimetica di Vian sembra ambiguamente adottare e perfino nobilitare, ancor più che mettere alla berlina, gli eccessi di un genere in voga.

È probabile che l’anno successivo Raymond Queneau ambisse a replicare, ma con penna meno incauta, l’exploit del giovane amico, pubblicando Troppo buoni con le donne (ora riproposto nell’elegante collezione delle «Letture Einaudi»: pp. 192, € 18,00).

L’edizione originale si presentava come traduzione di un sedicente «romanzo irlandese», attribuito a una certa Sally Mara e ambientato nella Dublino sconvolta dall’insurrezione nazionalista del 1916. È la storia atrocemente buffonesca del commando (sette militanti di diversa estrazione sociale, dallo studente in medicina al sottoproletario analfabeta) che occupa l’ufficio postale di Eden Quay e, anche quando altrove la ribellione è domata, resiste ostinatamente, in compagnia di Gertie, un’impiegata delle poste, inglese, rimasta chiusa nei gabinetti al momento dell’irruzione.

In Queneau l’intento parodico è evidente: l’iperbole grottesca al tempo stesso riprende i moduli tradizionali del genere eroicomico e fa eco alla moda splatter; tuttavia, a prevalere è il registro del pastiche, che mescola stili diversi e moltiplica ironicamente i riferimenti culturali – per dirne una: la parola d’ordine dei repubblicani è (nel 1916!) Finnegans wake.

Forte è naturalmente la tentazione – cui non manca di cedere il prefatore, Carlo Boccadoro – di vedere in questo libro del 1947 una specie di anacronistica Pulp Fiction; di fare insomma di Queneau un profeta del postmoderno. Più sensatamente si potrà osservare come il romanzo coniughi con brillante disinvoltura un intento commerciale (quello appunto di cavalcare l’onda dell’hard boiled) e un’originale ripresa del progetto surrealista, le cui provocazioni mirano a riconoscere dignità letteraria all’indicibile della violenza e del sesso. Eppure è vero che il futuro fondatore dell’Oulipo sembra già praticare qualcosa di simile a un double coding: da un lato chiede al lettore di dare un senso alle allusioni letterarie e ai giochi linguistici più raffinati; dall’altro lo invita a farsi voyeur senza vergogna di scene splatter e porno. Così, uno dei ribelli è decapitato da una bomba inglese mentre si dimena sopra la consenziente Gertie, e il suo corpo acefalo continua per inerzia a impegnarsi nell’atto sessuale; o ancora: un altro guerrigliero, gentile sarto omosessuale, sfida la morte per procurare un cambio alla ragazza (i suoi vestiti sono impregnati di sangue); ma alla fine, ispirato dall’esempio di un più rustico commilitone, non si sottrae ai piaceri anali, ancorché in declinazione etero. E così via.

I sette irlandesi sono efficaci macchiette che dicono (spassosamente) tutto quel che gli frulla in testa; invece la ragazza inglese è un personaggio tanto memorabile quanto misterioso. Vero è che entra in scena con un flusso di coscienza sulla tazza del wc, la cui virtuosistica banalità fa ovviamente il verso a Molly Bloom; ma poi è sempre osservata dall’esterno. Il lettore non ha accesso alla sua interiorità: è l’eloquenza dei suoi gesti a chiedere un’interpretazione. Di certo il terrore la induce a prendere i suoi sequestratori per il verso giusto, cioè letteralmente per il membro virile; ma, persa la verginità, con quasi tutti copula con (apparente) soddisfazione – oppone resistenza solo allo studente di medicina che, tormentato dagli scrupoli risibili della sua coscienza papista, si profonde in insulse dichiarazioni d’amore. E insomma, spudorata e disinibita, Gerti può in qualche modo (paradossale, è ovvio) trasmutarsi – in un libro dal titolo evidentemente antifrastico – in eroina dell’emancipazione femminile.

Nel finale, sopravvissuta per miracolo alle bombe inglesi, la ragazza si aggira fra le macerie con un incongruo abito da sposa; e al fidanzato (un ufficiale di Sua Maestà britannica), che la ritrova con emozione, denuncia la lasciva brutalità dei ribelli: le avrebbero sollevato l’abito per ammirarle le caviglie. Il promesso sposo si beve tutto e fa giustiziare i due irlandesi sopravvissuti; mentre Gerti se la cava come una sorta di Alatiel modernista: chissà se anche la protagonista della novella di Boccaccio si è affacciata alla mente di Queneau, fra le molte reminiscenze culturali che hanno nutrito la scrittura del romanzo. Le cui acrobazie linguistiche, va da sé, sono in larga misura intraducibili in italiano.

La versione di Giuseppe Guglielmi, del 1971, compensa le perdite con molta libertà creativa, e qualche arbitrio di troppo: in uno scialo di forzature grammaticali, stramberie lessicali (dialettalismi, arcaismi), stridenti gallicismi. L’insieme per lo più funziona, anche se i calchi di espressioni e costruzioni francesi saturano fastidiosamente la pagina – così il futuro imminente reso con andare a («non vado a restare in piedi», per non resterò in piedi; lo sciacquone «va a far rumore», ecc.). Se non altro, simili brutture costringono il lettore a vedere la forma, ricordandogli che in Queneau il primum è sempre la lingua.