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Quell’onda che travolse i partiti novecenteschi

Quell’onda che travolse i partiti novecenteschi

1994-2024 L'esordio caotico e plastificato alla Fiera di Roma

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 27 gennaio 2024

A qualcuno dei più attempati, nella sagra nostalgica organizzata da quel che resta della balena azzurra, saranno venuti i lucciconi ricordando quella prima convention di Forza Italia alla Fiera di Roma, il 6 febbraio 1994, giorno del battesimo ufficiale. In realtà fu un mezzo disastro. I cronisti da soli quasi straripavano, l’organizzazione non aveva idea di come gestire un evento di massa, faceva acqua da tutte le parti. Nonostante il caos le fattezze del partito «finto», «plastificato», «creato in laboratorio» erano nitide. C’era l’inno aziendale, «È Forza Italia, per essere liberi», col «dottore», Berlusconi Silvio, che invitava dal palco la platea a cantare più forte. C’era «il kit del candidato» e bastava quello a sganasciarsi. C’erano i politici arruolati di fresco, da Antonio Martino a Giuliano Urbani, tutti bei nomi ma senza radici né uno straccio di consenso popolare.

Quell’esordio accidentato finì di convincere i leader politici dell’epoca di aver poco da temere, nonostante tutto, dall’arrivo dell’intruso. Avevano cominciato a tirare il fiato già il giorno del videomessaggio inviato alle tv, il 26 gennaio, quello della «discesa in campo»: «L’Italia è il Paese che amo». L’industrialotto si muoveva nell’agone politico come in un mercato pubblicitario, più che il leader faceva il testimonial di un prodotto di là da venire. Nessun rapporto con la realtà sociale, nessun “territorio” al quale rivolgersi, nessuna rappresentanza di interessi sociali. Solo la faccia tosta, quella effettivamente impareggiabile, di chiedere consensi in nome della propria biografia, del proprio successo imprenditoriale.

I partiti rivali, il Ppi, già Dc, di Mino Martinazzoli e il Pds, ex Pci, di Achille Occhetto, la presero tanto sottogamba da non considerare neppure la possibilità di allearsi per fronteggiare quel polo di destra tanto abborracciato da dover fingere di essere due: uno, quello «della Libertà», a nord con la Lega, l’altro, quello «del Buongoverno», a Sud con il Msi in procinto di diventare An. Col senno di poi è facile accusare quel ceto politico democristiano o ex comunista di miopia e incapacità di comprendere la realtà. Prima di giudicare bisogna però immedesimarsi: era un ceto politico che veniva dalla lunga esperienza dei partiti politici novecenteschi, non poteva sapere che quella gloriosa storia era arrivata al capolinea. Berlusconi cavalcava, a fiuto e senza neppure esserne davvero consapevole, un’onda montante, il declino dei modelli di politica e di partito del Novecento.

Oggi è luogo comune scoprire che c’è qualcosa e spesso molto di Silvio Berlusconi in tutti i leader politici italiani, e rintracciare dunque nel Cavaliere l’origine di numerosi guasti. In realtà quella degenerazione si sarebbe compiuta con lui o senza di lui e non solo in Italia, tanto che oggi nel mondo la figliolanza politica, da Trump a Macron per citare solo due casi tra i più vistosi, è innumerevole. L’identifcazione secca del partito col capo, lo sganciamento di quasi tutti i partiti da ogni vera rappresentanza sociale, la metamoforsi della ricerca del consenso da proposta politica a pura faccenda mediatica: Berlusconi è stato il risultato di questo processo, trent’anni fa nascente, oggi pienamente dispiegato, e almeno da alcuni punti di vista non il peggiore possibile.

Berlusconi si era deciso, forse rassegnato, a «scendere in campo» per difendere i propri affari e poi per difendere se stesso da una chilometrica fila di processi: la sua lunga centralità nella politica italiana non poteva che inquinare l’inquinabile. Ma di tendenze davvero autoritarie, di tentazioni semidittatoriali non ne nutriva. Anche per questo è stato capace di essere per oltre vent’anni il leader non di un partito vorace e prepotente ma di una coalizione che governava non senza generosità con gli alleati, per quanto minori fossero. Voleva essere un sovrano, e a modo suo lo è stato, non un caudillo o un ducetto, cosa che purtroppo non si può dire per buona parte dei suoi eredi o imitatori, in Italia e fuori. Forse per questo anche chi lo aveva ferocemente osteggiato nell’epoca del trionfo, qualche segreta e inconfessabile nostalgia la avverte.

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