Sono scoccati di recente i 100 anni dalla nascita e i 40 dalla morte di Georges Brassens, il grande maestro della canzone francese, spesso individuato come il padre di tutti i cantautori, antidivo per eccellenza, l’uomo che appoggiava il piede sinistro sulla sedia e imbracciava la chitarra per declamare le sue miniature da pentagramma.
I SUOI BRANI CONTINUANO a essere amati, indagati, analizzati un po’ dovunque, persino nelle scuole transalpine, tanto da essere stato riletto non solo in tantissime lingue. Fabrizio De André, inizialmente suo fortunato discepolo, ha tradotto alcune sue canzoni in italiano, rendendo famose La marcia nuziale e Delitto di paese e altre, Nanni Svampa ha preferito il dialetto milanese, Giorgio Ferigo in friulano, Fausto Amodei in piemontese, Mimmo Mòllica in siciliano, Beppe Chierici (e Alessio Lega e Paolo Capodacqua) in italiano, Vito Carofiglio in barese, Adriano Cozza in dialetto lucano (dove Il gorilla diventa ‘U sciavuort, il montone) e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo (sulla rete si trovano versioni in veneziano, bergamasco, labronico e napoletano).
Probabilmente per avvicinarlo alle giovani generazioni, il comico-attore-cantante Alberto Patrucco ha già fatto due cd con le sue canzoni riadattate nel linguaggio del dolce sì, Chi non la pensa come noi (2008) e Segni (e) Particolari (2014) con Andrea Mirò e altri e ha mandato alle stampe un libro, AbBrassens (Paginauno, pp. 306, euro 19, ricco di appendici e traduzioni di brani meno noti) confrontandosi con Laurent Valois, collezionista di dischi e megaconoscitore di Tonton Georges, per una non-biografia (ricordando La non-demande en mariage) che rievoca anche vicende note o meno conosciute con l’intento, però, di ragionare attraverso le liriche sui temi preferiti dallo chansonnier coi baffoni doppi da cacciatore. Un innovatore totale, anarchico piuttosto individualista, dotato di uno sguardo acuminato nel dipingere la condizione umana e nel suo parteggiare apertamente per gli emarginati, i cattivi soggetti, i morti di fame, prendendo in giro le convenzioni e il perbenismo borghese.
FIGLIO DI UN MURATORE e di una casalinga lucana, in casa ascoltava le canzoni napoletane e le arie d’opera che la madre gli intonava appassionatamente, debutto (trionfale) allo Chez Patachou nel marzo ’48, la Douce France di Trenet e Chevalier stava profondamente cambiando. Questo irriverente ribelle con la sua tipica bonomia si lancia contro l’autorità costituita (Le Gorille, Tonton Nestor), fautore di un antimilitarismo radicale (La mauvaise reputation, Les deux oncles), anticipatore della battaglia per salvare l’individuo in una società massificata (La ballade des gens qui sont nès quelque part), smontando pezzo su pezzo il placido conformismo gollista e reazionario, proprio lui che rifuggiva dalle manifestazioni, dalle marce in piazza, da qualsivoglia adunata («Il plurale non serve nulla all’uomo, e quando si è più di quattro, non si è che una banda di coglioni» recita in Le pluriel).
Il poeta con la pipa, premiato dall’Académie Française, fu protagonista di una storica serata nel 1976 al Premio Tenco che quest’anno l’ha ricordato con la presentazione di questo libro. E suggerendo di ascoltare le sue canzoni, molto radicate in quel periodo storico, gli anni 50-60-70, eppure con spunti di attualità, con idee resistenti, con umorismo leggero, abbracciamo idealmente Brassens, abBrassens.