Cultura

Quell’intimità senza corpo che rischia di diventare astrazione

Mirt Komel Un’intervista con lo scrittore e filosofo sloveno e docente all'Università di Lubiana, domenica al MaMu di Milano ospite di Bookcity. Il suo ultimo romanzo, appena tradotto in italiano da Carbonio, si intitola «Il tocco del pianista». Porta avanti i suoi studi sul senso del tatto anche in forma letteraria

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 15 novembre 2019

Gabriel Goldman si risveglia dal coma in seguito a un incidente. Esposto a una seconda nascita e alle nuove ipocondrie con cui presto dovrà fare i conti, scopre alcune cose di sé, intanto come si possa fare nuovamente esperienza della realtà e come sia faticoso misurarsi con questo presente, rumoroso e sordo, soprattutto quando si ha a che fare con un talento grande, nel suo caso la musica. Protagonista del romanzo Il tocco del pianista (Carbonio, pp. 170, euro 15,50, traduzione di Patrizia Raveggi), il giovane Gabriel è il personaggio immaginato da Mirt Komel, filosofo e scrittore sloveno che sul senso del tatto si è lungamente interrogato, fino a oggi in forma esclusivamente saggistica. «L’idea del romanzo è quella di un procedere doppio – ci racconta Komel raggiunto per qualche domanda -; da una parte un Bildungsroman classico in cui un pianista sviluppa il suo amore per la musica, la sua tecnica e l’aspirazione artistica. Dall’altra, un Bildungsroman à l’envers, dove il tocco di Gabriel regredisce fino al punto di non poter toccare più nulla tranne il pianoforte stesso. Credo che il tatto sia uno dei sensi più fragili perché non solo ci schiude il mondo come tangibile, ma apre noi stessi al mondo».

Una metafora sontuosa che attraversa, a vari livelli, anche la filosofia occidentale – da Platone in avanti. In che modo si può toccare un’idea o possiamo essere colpiti da un’idea?
Se la compariamo con le più famose metafore riguardanti la vista e l’udito (la voce della coscienza, la theoria come uno scorgere, eccetera) – è definitivamente più sottile e intrigante perché i filosofi la usano senza rifletterci. Per esempio, nel Fedone di Platone possiamo leggere che si deve rinunciare al tocco fisico, corporeo, se si vuole toccare l’idea con l’anima – che è essa stessa intoccabile se non in un piano ideale. Ed è questo, credo, che fa la filosofia: tocca le idee e si lascia toccare dalle idee senza sapere che cosa sia il tocco come tale. Cosa che l’accomuna all’arte, la quale, però, opera sul piano dell’idea del bello.

In che modo si colloca la tormentata passione musicale di Gabriel con il suo mancare a se stesso?
La risposta sta nel quesito che rivolge al demone che lo perseguita sin da bambino: «Che vuoi?» E il demone tace, perché non c’è un senso o una ragione nell’esistenza e insistenza del demoniaco suono che Gabriel vuole riprodurre al pianoforte, ed è per questo che non può non venire a mancare a se stesso. Per dirla alla maniera filosofica: il soggetto è vuoto di per sé – ed è da qui che nascono le crisi esistenziali – soltanto le sue azioni hanno sostanza, ecco perché Gabriel non può smettere di suonare.

C’è una consonanza tra il peso e il pensiero, lo sostiene Jean-Luc Nancy, che molto si è interrogato intorno al toccare. Come fa Gabriel a cambiare la consistenza di ciò che lo circonda?
Giustamente descritto da Derrida come «il più grande filosofo del tocco» nel suo libro intitolato Toccare, Jean-Luc Nancy. Tutta la sua opera, anche se non esplicitamente dedicata al tocco – dal Corpus e L’intruso a Noli me tangere fino a La nascita dei seni – affronta il punto sensibile del toccare, ovvero che esso non deve toccare se vuole esercitare la sua arte, il suo tatto.
Ne Il senso del mondo Nancy fa un gioco di parole con i verbi penser («pensare») e peser («pesare»), così che pensare e pesare combacino proprio nel momento del tocco: se una cosa è «pesante» nel senso figurativo del termine, se una cosa ci fa pensare, allora ci tocca in un modo ben diverso da una cosa fisicamente «pesante», che «pesa». Ed è così che fa Gabriel cambiando consistenza al peso del mondo pesante: suona il pianoforte con un tocco che cambia non solo il pezzo musicale che esegue, ma anche se stesso, fino al punto che – ed è questo il prezzo che deve pagare – il mondo diventa per lui intoccabile.

C’è un piccolo libro di Luce Irigaray che, nell’edizione originale, si intitola «Perhaps cultivating touch can still save us». Secondo lei, se coltivassimo il senso del tatto potremmo forse salvarci? Avverte vi sia una questione politica che riguarda l’umano convivere?
Sono d’accordo con Irigaray, il tocco può salvarci perché, nonostante le apparenze, il problema dei nostri giorni è proprio quello del tocco, dal quale ci siamo o siamo stati alienati. È per questo che la questione ha anche un senso politico, perché tange ciò che è comune a tutti noi, cioè la comunità stessa: se non possiamo essere in contatto – in contatto vero, non digitale, fittizio – uno con l’altro allora non siamo più una comunità ma un’aggregazione di atomi, che cadono come gocce di pioggia senza mai toccarsi, evocando qui il poema di Lucrezio sulla natura degli atomi creatori del mondo proprio deviando dalla rotta prestabilita incontrandosi.

Per Irigaray, il toccare è però anche un senso imprescindibile dell’entrare in relazione. Parla di vicinanza e sessualità, di labbra, di pelle e di eros. È un desiderio che diventa prensile sia pure senza possesso. Gabriel invece desidera Ester ma non riesce a raggiungerla, talmente è commovente. Come mai?
Ester, più che una donna in carne e ossa che uno scultore o pittore potrebbe rendere in maniera tangibile in marmo, è una donna musicale e poetica, intangibile proprio come la poesia o la musica, ed essa stessa intangibile – ma non per questo meno sensuale o erotica, il contrario: il desiderio diventa fiamma con il proprio contrario, con il proprio contrappeso – per dirla con Nancy – che muove il pensiero in contraddizione e lo fa pensare. In Noli me tangere Nancy fa un’allegoria erotica della nota cristiana di Gesu e Maria Maddalena traducendo il «non mi toccare» come: «Non toccarmi con le dita, ma toccami con un tocco vero». Un tocco vero è proprio quanto succede a Gabriel e a Ester la fatidica notte del loro primo incontro.

L’intimità nella sua impossibilità viene vissuta da Gabriel in tutto il suo stordimento. Che relazione ha il suo protagonista con la solitudine?
L’arte in generale – come la filosofia del resto – è una cosa molto solitaria. Se non altro perché un artista spende e deve spendere ore e ore per perfezionare ciò che fa, e questo può prodursi soltanto in solitudine. Gabriel è, in tal senso, un artista, arte per lui non è un ornamento ma un modo di vivere che alla fine gli impedisce il venire in contatto con il prossimo, in ossequio a quanto richiestogli dal suo demone. Il concetto, insomma, è molto simile a quello elaborato da Thomas Mann nel Doctor Faustus, dove «il patto col diavolo» presuppone che Adrian Leverkuhn non debba amare se vuole arrivare a comporre l’Apocalisse. Il punto è che invece Gabriel Goldman ama, ama profondamente, e la barriera che lo ostacola è proprio il tocco con il quale riesce a toccare – suonare – il pianoforte in un modo unico, geniale.

Il suo personaggio è la prova vivente di come si possa pensare con le mani. Si può sfiorare un pianoforte, lasciarsi accarezzare dai ricordi, farsi attraversare o lacerare da un suono, essere abitati da un ritmo. La memoria del corpo è più generativa, e tattile, di quanto immaginiamo?
Sicuramente la memoria tattile gioca un ruolo determinante nell’essere umano già dall’infanzia con i primi tocchi dei quali facciamo esperienza – in tal senso si può parlare del «tocco materno» nello stesso modo in cui riferiamo della «lingua madre», ovvero il tocco come un linguaggio che impariamo ma che, con l’avanzare del tempo, dimentichiamo di parlare. Per un musicista come Gabriel Goldman l’esperienza formativa, cioè la sua «memoria tattile«, è interamente composta dai suoni e tocchi che lo circondano, dal cantare della madre al rintocco gelido del pendolo nel negozio di orologi.

Che cosa riesce a rappresentare la scrittura letteraria che la forma concettuale non può descrivere? Sono esercizi per lei complementari o si tratta piuttosto di mettere in scena la complessità delle umane relazioni?
Sono due cose ben distinte che tuttavia si incontrano sul piano del linguaggio, usandolo per scopi diversi. Il fine della filosofia è la riflessione, la conoscenza, la spiegazione – per dirla un po’ pomposamente – della «verità»; il fine dell’arte è mettere la verità a nudo, esprimere il vero nell’ambito sensibile ed estetico che le è proprio o, più precisamente, che è proprio di ciascuna forma artistica. Ed è infatti questo il senso della parola «estetica», il sensibile del senso o anche il senso del sensibile, tutt’e due i sensi di «senso» combaciano baciandosi a vicenda.

Parlando del quotidiano, il suo libro appare inattuale e al contempo cruciale nel suggerire che il corpo deve tornare al centro. Anche in un’epoca di realtà virtuale in cui tutto sembra smaterializzarsi e invece si ha una passione, sia pure maldestra, per il «contatto»…
La tecnologia come tale promette maggiore vicinanza e maggiore contatto – specialmente se pensiamo alla touch-technology dei telefoni, laptop, tablet – invece ciò che produce in realtà è sempre più alienazione, più distanza. Più abbiamo smaterializzato il mondo, più abbiamo ridotto le distanze, più distanti siamo e più ci manca quel contatto vero che solo il tocco può darci. È questa è la ragione ultima del senso del tatto in ambedue i significati della parola «senso»: solo il «senso del tocco» può «fare senso» di questo mondo insensato e insensibile.

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