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Quell’inquieto apprendistato

Quell’inquieto apprendistatoFoto Ap

NARRATIVA «Il figlio di Forrest Gump», a proposito dell’ultimo libro di Angelo Ferracuti appena pubblicato da Mondadori. Un intenso memoir di segno non meno introverso e straziato del precedente «La metà del cielo». La figura del padre Mario è ombra antagonista, all’antica e tradizionalista. E poi c’è un ragazzo scontroso che negli anni settanta è ancora ignaro della propria vocazione

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 9 ottobre 2024

A lungo si è ritenuto Angelo Ferracuti uno scrittore di straordinari reportage legati ai temi e ai luoghi del lavoro così come alla storia e ai volti della classe operaia proprio nel momento in cui a quest’ultima si negava dignità e visibilità dentro la dinamica rovinosa del neoliberalismo, il quale non ammette, per assioma, che il mondo così com’è, qui e ora, possa essere trasformato. Ferracuti ha scritto i suoi libri maggiori, con testarda e spietata coerenza, proprio negli anni della fiction e quindi della sola evasione consentita dal qui-e-ora e del resto lo dicono le date perché Le risorse umane è del 2006, lo stupendo Il costo della vita del ’13 e Andare, camminare, lavorare del ’15. Né va omesso che questo reporter il cui nume dichiarato resta Ryszard Kapuscinski ha spesso e volentieri valicato il fortilizio occidentale come testimoniano numerosi racconti di viaggio e da ultimo Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia (2022) integrato dalle nitide consustanziali immagini di Giovanni Marrozzini.

NON TUTTI RAMMENTANO però che la radice di Angelo Ferracuti è confitta nell’arte narrativa tout court e lo testimoniano le sue opere d’esordio, dai racconti di Norvegia (’93) a Un poco di buono (’02) una storia esistenzialista di deriva e dolore che la critica a suo tempo non comprese o ignorò. Ora, è come se quella stessa radice avesse riaperto al presente una faglia, come se lo scrivere fosse uscito dalla clausura dove l’autore l’aveva costretto per anni e, una volta liberato, egli volesse raccontare le cose del mondo pari ad «una grande avventura». Tutte le cose, a partire dalle più difficili, quelle d’ordine strettamente personale. Dopo un vertice quale La metà del cielo (’19), dedicato alla prima moglie Patrizia troppo presto perduta, ecco un altro memoir di segno non meno introverso e straziato che al primo sta in termini complementari, Il figlio di Forrest Gump (Mondadori, «Scrittori italiani e stranieri», pp. 224, euro 18.50). Qui campeggia e a lungo incombe la figura del padre Mario, ombra antagonista e più o meno oscuramente ostile, sparring di un conflitto edipico e perfetta incarnazione dell’altro da sé. Carattere, idee, predilezioni li dividono perché l’uno è un uomo all’antica, tradizionalista, democristiano, anticomunista, l’altro invece un ragazzo inquieto e scontroso che negli anni settanta, i suoi anni giovani, è ancora ignaro della propria vocazione.

L’OSTILITÀ tra padre e figlio (che tenta di alleviare Elvira, madre e moglie, donna di straordinaria dignità cui sono dedicate alcune tra le pagine più intense) ordisce sulla pagina un regime simbolico divergente e tuttavia parallelo: il padre è un runner dilettante, un maratoneta perpetuamente a caccia di vittorie e primati da superare, mentre il figlio, un militante politico mai riconciliato, è alla ricerca di un punto di equilibrio che solo la scrittura riuscirà a garantirgli. Al presente, conoscere il padre, riandare alla sua figura e alle zone dolenti e talora drammatiche del rapporto, equivale a scendere in profondo e trapassare finalmente dall’«io», con le sue querule pretese, al «sé», con le sue dure verità. Conoscerlo equivale pertanto a conoscersi o, meglio, a riconoscere i motivi di una vocazione.

Ferracuti ne deduce un frangente di storia comune con i volti di alcuni e indimenticabili compagni di via, come il cineasta Vito Lauri o il musicista Claudio Lolli, fedele alla lezione di due maestri che lo scrittore fermano non ha mai smesso di rammentare: un grande poeta che fu innanzitutto, come lo definisce, un proletario preistorico, Luigi Di Ruscio, e una leggenda del fotogiornalismo, libertario e nomade, Mario Dondero.

Degli anni settanta Il figlio di Forrest Gump restituisce il clima, i momenti di passione collettiva, gli ardori e le più tremende delusioni, il sound acido da cui pure si sprigionavano, improvvisi, dei momenti di travolgente tenerezza. È questo peraltro il paradosso iscritto in ogni memoir, quello di essere un testo autobiografico che non si esaurisce tuttavia negli spazi di una preordinata autobiografia. Perché anche se non c’è finzione tutto vi è disposto nella sequenza più docile a un destino e, alla lettera, di un «romanzo», parola che infatti compare in frontespizio Così, in uno stile netto senza essere levigato, proseguendo idealmente L’altra metà, Angelo Ferracuti costruisce il suo romanzo di formazione che classicamente risponde alla domanda: come si diventa un uomo e, nel qual caso, uno scrittore? E infatti l’autore ne conclude, traducendo una dichiarazione di poetica nella più lancinante delle ammissioni: «Ho sempre pensato che la sua morte alla fin fine è stata il motivo per il quale noialtri abbiamo fallito, lui come padre e io come figlio, il motivo per cui lui è morto senza sapere niente di me e io di lui, la cosa peggiore che poteva capitarci, il motivo per cui ora sto scrivendo».

* Domani alle 18, l’autore presenterà «Il figlio di Forrest Gump» alla Biblioteca Antonelliana di Senigallia. In dialogo con Massimo Raffaeli.

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