Cultura

Quell’inestricabile filo della Storia

Quell’inestricabile filo della StoriaUna rappresentazione teatrale di Antigone, con la regia di Satoshi Miyagi (Avignone, 2017) foto Getty Images

ITINERARI CRITICI Tra poesia, saggio e romanzo, un percorso di libri su amore e attenzione. La voce di Antigone, alcuni testi di Simone Weil e un dialogo tra Margery Kempe e Giuliana di Norwich. Nuove contaminazioni letterarie e filosofiche per la figlia di Edipo e Giocasta, protagonista delle tragedia sofoclea e ora in un testo di Stefano Raimondi, un «recitativo per voce sola». Tra le pagine della filosofa novecentesca francese e autrice di «L’attesa di Dio», si scoprono apprendistati alla mistica, così nell’esordio di Victoria MacKenzie

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 7 febbraio 2024

Non è una ragazza qualsiasi colei che spunta dalle pagine del libro di Stefano Raimondi, L’Antigone (Mimesis, pp. 120, euro 12). Storicamente individuabile nella figlia di Edipo e Giocasta, è sì la straordinaria figura sofoclea ma, nella lettura di Raimondi, risente delle differenti suggestioni e rappresentazioni che di lei ci sono state consegnate, in particolare nel corso del Novecento. Letterarie e filosofiche, una fra tutte – dopo quella di Maria Zambrano – appartiene a Simone Weil che la descrive diversa dalla timida sorella Ismene.
È infatti Antigone una creatura non comune, piena di coraggio e cuore amoroso. Ed è proprio sull’amore che punta la prefazione di Chiara Zamboni, cogliendo la sessuazione riconosciuta dall’autore, poeta e critico letterario, che segna l’emersione di una donna il cui nome suggerisce con probabilità un’etimologia riferibile al contrasto e alla sostituzione. Vicenda tragica e originaria, quella raccontata da Stefano Raimondi nel suo «recitativo per voce sola», narra di solitudine costitutiva, di un essere umano eccentrico e solitario che tuttavia non esita un istante nello scegliere il bene di un altro essere umano.

L’ANTIGONE però, con quell’articolo davanti, diventa anche topos laterale di memorie collettive, dove si affastellano dilemmi più sentimentali che morali, non cedendo a una certa vulgata che ne ha voluto indicare l’eccesso pulsionale. Bisogna piuttosto stare più accanto a ciò che scrive Luce Irigaray (in diversi testi): la rivoltosa tebana, per esempio, sa distinguere le forme dell’amore, soprattutto «vuole essere il tutto che è in quanto essere vivente. Vuole vivere e non morire».
Ecco perché appare convincente quanto Raimondi immagina che lei dica in proposito: «Qui smetto, ma non di morire, ma di vivere recisa. Ho lasciato dei bulbi, e della terra vicino alla porta delle mia casa. Ho lasciato un cielo e delle nuvole ricolme sopra il mio tetto. Li ho lasciati come auguri, come carezze mai date a nessuno».
Creonte, a questo punto, è un interlocutore ancora più indegno di quanto lo ricordiamo, oltre che ingiusto, è lui l’essere in effetti a essere radicalmente in contrasto, ma al vivente. E il monologo poematico depositato nel libro – con una efficace postfazione di Niccolò Nisivoccia e le illustrazioni di Mario Cresci – è il cascame letterario e tutto novecentesco di una riscrittura aperta che deriva non tanto dalle contemporanee rivisitazioni dei classici, quanto da una ermeneutica dei testi foriera di contaminazioni più che di invenzioni. Se la postura di Antigone è qui reietta, diseredata, presagio di abbandoni e maledizioni, Raimondi ne coniuga il tenore politico.

NELLE SUE BREVI PROSE poetiche l’autore accoglie la lucidità di una donna che seppellisce il proprio fratello nonostante il divieto e a scapito della sua stessa sorte. Se l’amore è dunque un probabile luogo di scorticati, per dirla con Roland Barthes, è all’attenzione e all’attesa orante che ci si rivolge. Il suo essere «pietra d’inciampo» è memoria di altri teatri violenti della storia dell’umanità, non c’è allora legittima e necessaria custodia del sangue famigliare là dove non si riconosca il volto degli ultimi, dei soccombenti, degli scacciati, dei condannati.
Questo «Io» è in frantumi, questa parola in rovina a sovvertire plasticamente categorie estetiche rifugiandosi in un interno. Arriva dalla tomba, da una prigione, da un riparo anonimo di dolore o da una stanza di pietra – sembra dirci Antigone.
Allora cos’è che manca, tanto da produrre esitazione? Simone Weil risponderebbe forse la verità, ma in primis a disabitare è l’amore, descritto sommamente nella poesia dell’inglese George Herbert dal titolo appunto «Love» e che lei ripete, simile a un mantra. La traduzione che ne fa la filosofa francese la si può leggere nel volumetto Attenzione e preghiera (Meltemi, pp. 139, euro 12, prefazione di Chiara Giaccardi, introduzione e cura sapiente di Marco Dotti, postfazione di Maria Clara Lucchetti Bingemer). Più di una semplice raccolta, i testi che vengono consegnati, datati tra il 1940 e il 1942, sono allenamenti di radicalità e intransigenza, due qualità che legano la traiettoria di amicizia, storica, politica e spirituale con Antigone e altre creature libere (e che non a caso sono state, e sono ancora, di orientamento per il femminismo).

Se l’amore dà il benvenuto a chi si pensa «ingrato» e «meschino», chiede a chi gli sta dinanzi di cosa ha bisogno invitandolo a sedersi e assaggiare il suo cibo. Ecco forse cosa colpisce Weil della poesia di Herbert, imparata a memoria come una preghiera il cui significato è depositato in altre pagine, quando la filosofa scrive che «Gli sventurati non hanno bisogno di nulla al mondo se non di uomini (intesi come esseri umani, ndr) che prestino loro attenzione. La capacità di prestare attenzione agli sventurati è una cosa molto rara, molto difficile. È quasi un miracolo. È un miracolo. Quasi tutti coloro che pensano di avere questa capacità non ce l’hanno. Il calore, l’impulso del cuore, la pietà non sono sufficienti».

PERCHÉ IN FONDO, prosegue Weil, l’amore nella sua pienezza si sostanzia nel saper domandare: «Qual è la tua ferita? Qual è il tuo tormento?». Se attenzione e amore sono inestricabili fili di uno stesso sguardo capace di fare spazio, di allargare la vista mostrando il movimento in cui «l’anima si svuota» è possibile che ci troviamo frontali, ancora una volta, a un apprendistato che potrebbe diventare mistico.
In che termini questo esercitarsi risponda alla esplorazione di sé, come del mondo, lo raccontano magistralmente le donne. Se ne è accorta anche Victoria MacKenzie, scrittrice e poeta, che nel suo romanzo d’esordio, Abbi pietà del mio piccolo dolore (il Saggiatore, pp. 170, euro 17, traduzione di Viola Di Grado) lascia che Margery Kempe e Giuliana di Norwich raccontino di se stesse fino al loro incontro, in Inghilterra intorno al 1414. Due ritratti che potrebbero essere accolti anch’essi come «recitativo per voce sola», perché il libro è costruito attraverso brevi inserti che procedono indipendenti e che indagano, in prima persona, ciò di cui le due mistiche inglesi hanno fatto esperienza.

Intanto un affacciarsi, senza esitazione, come si confà all’amore, al viaggio spirituale che non è mai neutro perché si avvia dai corpi sessuati. Se Margery Kempe, analfabeta e appartenente alla classe mercantile, lascia il marito e i quattordici figli per pellegrinare tra Roma, Assisi, Gerusalemme e Santiago di Compostela (le sue memorie sono state dettate e rappresentano la prima autobiografia in lingua inglese), nel caso di Giuliana di Norwich le sue visioni sono state raccolte nelle Rivelazioni dell’amore divino.
Tra perdite, ritrovamenti fortuiti e altre storie che hanno interessato entrambi i testi dopo la morte delle autrici, l’operazione condotta oggi da MacKenzie non ambisce a essere una ricostruzione troppo veritiera, sia pure non interferisca eccessivamente con la verità dei fatti. È tuttavia occasione di ripercorrere la parabola della solitudine di due donne che, per espressa volontà, decidono di incontrarsi e pensare insieme.

DI PARLARE INSIEME, per la prima volta, di malattia, maternità, lacrime, rivolte. Raccontano delle persecuzioni, hanno i segni di peste e disobbedienze, osservano il senso di un esistere che non è unicamente terreno e che, anche in mezzo alla perdita e alla violenza, trova spazio, prima segreto e poi pubblico, per parlare di Dio. A lui interessano i fondali marini in cui cammina Giuliana che, nel ricordo, ondeggia insieme alle alghe nella corrente, «come il nocciolo che dondolava al vento fuori dalla mia finestra». Non può esserci esitazione, anche se a fronte di «un carico enorme / appeso a un filo sottile», chioserebbe Anne Sexton, dalla stanza di Norwich alle terre di Margery.
Le parole di Antigone, come quelle di Simone Weil e delle protagoniste del romanzo di MacKenzie, saettano allora tra i secoli suggerendo attenzione e amore come antidoti ai numerosi e diversi tipi di esilio a cui condanna la Storia. E agli altrettanti rifiuti. Parlare dunque, e agire, soprattutto quando troppa e ammutolente è la violenza che imperversa nel presente, il nostro come il loro.

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