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Il desiderio è rivoluzioneNe parlava spesso nelle conversazioni pubbliche dell’Ultimo imperatore (1987) Sakamoto, così come di The Sheltering Sky (Il tè nel deserto, 1990), e non perché, nel caso del primo, con la sua musica aveva vinto tra i moltissimi altri premi l’Oscar. È che il lavoro con Bernardo Bertolucci dice bene cosa è la musica del film, non una «colonna sonora» che si immagina in quanto tale, come commento o accompagnamento ma una parte fondante della narrazione. I suoi racconti erano divertenti, appena ironici, pieni di delicatezza nel ricordare il confronto sulle singole note tra lui e Bertolucci che diceva «Ryuichi, un po’ più dolce, no, un po’ più intenso» e via dicendo in sfumature che per chi le ascoltava sembravano simili tra loro. Ma se si pensa all’Ultimo imperatore quella musica divenuta immaginario esprime in ogni passaggio qualcosa che riguarda il senso profondo del film che non potrebbe essere lo stesso senza; oltre le parole, libera negli spazi lo stato d’animo di quella storia, il bimbo rinchiuso tra le mura del potere, nei suoi codici rigidissimi, nel protocollo di un’esistenza che non ammette punti di fuga, e nella quale ogni trasgressione è come un salto nell’oscurità. La musica sono le linee di una geometria dell’essere umano a cui Sakamoto infonde una struggente malinconia, è quel movimento sontuoso della macchina da presa che cerca l’intimità laddove sembra impossibileI film con Oshima, Almodovar, Inarritu, De Palma e il doc dove affronta la malattia

LO STESSO accade in The Sheltering Sky, la fuga dal mondo della coppia protagonista – Debra Winger e John Malkovich ispirata al romanzo omonimo di Paul Bowles – che in qualche modo con L’ultimo imperatore condivide un orizzonte nel desiderio di un «altrove» che è viaggio, perdita di sé, morte, rinascita. Poco prima Sakamoto aveva incontra Nagisa Oshima, il protagonista della nouvelle vague giapponese che vuole quel ragazzo dall’aria molto più giovane della sua età – diceva lo stesso Bertolucci di lui, parlando del loro primo incontro – nel ruolo dell’alter ego di David Bowie in Merry Christmas, Mr.Lawrence. Un altro intreccio di geometrie del desiderio negate perché per un soldato dell’esercito giapponese, il comandante del campo di concentramento di prigionieri occidentali (Sakamoto) la pulsione erotica ossessiva verso quel prigioniero inglese biondo (Bowie) è qualcosa di inaccettabile, e come tale può solo far esplodere ancora più violenza. Specchio l’uno dell’altro,tra oriente e occidente. Nello strano detour dei loro universi musicali che questa «alterità» la cercano costantemente attenti all’ascolto del proprio tempo e del futuro. «Tutto può essere musica» amava dire Sakamoto che sceglieva Bach tra i musicisti da salvare di ogni tempo.

QUELLA con Bertolucci col quale tornerà a lavorare in Piccolo Buddha (1993)– ancora un altrove — anche se unica, non è stata la sola relazione col cinema dell’artista giapponese, protagonista anche qualche anno fa di un bel ritratto-documentario, presentato al festival di Venezia (Ryuchi Sakamoto Coda, 2017) nel quale raccontava la sua malattia, il primo cancro che lo aveva colpito, e il suo impegno ecologista e contro il nucleare in Giappone e nel mondo. Sua la colonna sonora per Tacchi a spillo (1991) di Pedro Almodovar e per Babel (2006) di Alejandro Inarritu col quale lavora di nuovo in The Revenant (2019) componendo Async insieme a Alva Noto. E ancora Snake Eyes di Brian De Palma, la miniserie di Stone, Wild Palms, ogni volta con la cifra unica che sapeva cogliere la lezione universale della musica.