L’Eur: quasi basta pronunciarne il nome, per avvertire un’impressione di liquidità. Nonostante le geometrie tetragone, la zonizzazione modernista sembra qui sciogliersi allo sguardo nella premonizione di horror vacui che la impasta. Per Fellini, di casa in via Eufrate, l’Eur era un luogo metafisico e provvisorio; Pasolini, ospite della stessa via, dalla finestra vedeva un vuoto che si dilatava fino al mare. Pesano, tra le maglie di queste rette ortogonali, le assenze. Il Museo delle Civiltà tenta ora di colmarle e di restituirle alla cittadinanza grazie all’arte, facendosi voce narrante del potenziale non scritto del quartiere.

Così, dal 26 ottobre, con la direzione di Andrea Viliani sono stati avviati nei suoi spazi percorsi di visita che avvicinano l’antropologia alla contemporaneità, interrogandola sul ruolo e sulle responsabilità delle eredità culturali.
«Abbiamo definito metodologico il nuovo ingresso – chiarisce l’antropologa Rosa Anna Di Lella -. Nel salone di accesso abbiamo infatti esplicitato le metodologie con cui sono state costruite le collezioni, mostrando anche materiali non esposti, come gli inventari certificanti la proprietà museale degli oggetti e fotografie d’archivio che illustrano i principi alla base degli allestimenti passati». I visitatori sono immediatamente accolti da doppie vetrine che presentano il lavoro di quattro dei sei artisti in residenza, i quali per un anno e mezzo diventeranno a tutti gli effetti ricercatori associati del MuCiv, ampliandone il respiro già internazionale.

SAMMY BALOJI, congolese, è di base a Bruxelles. Gala Porras-Kim, nata a Bogotà da una donna coreana e un uomo colombiano, vive a Los Angeles ma è spesso a Londra, dove collabora con il British Museum. Maria Thereza Alves, brasiliana, si muove tra Berlino e Napoli. Il Karrabing Film Collective è rappresentato da Elizabeth Povinelli, professoressa di antropologia alla Columbia University di New York che da anni conduce una ricerca trasversale sulle origini della sua famiglia, rintracciate a Carisolo: oggi Trentino, prima territorio asburgico.

«Alves sta lavorando con noi su reperti di un istituto etnografico messicano da tempo inaccessibili», spiega Matteo Lucchetti, curatore per le arti e culture contemporanee. «La sua idea è quella di coinvolgere accademie di belle arti italiane per riprodurre oggetti al momento non fruibili, creandone copie che possono andare in mostra e permettendo contestualmente a giovani artisti di familiarizzare con le culture autoctone da cui provengono».
Porras-Kim verrà a Roma a gennaio, per dedicarsi alle collezioni del Museo d’Arte Orientale Giuseppe Tucci, ancora in deposito. «Nell’ingresso del MuCiv, la sua riflessione parte dalle tracce di polvere lasciate dai resti carbonizzati di Luzia, un’ominide vissuta undicimila anni fa in Brasile», precisa Lucchetti. Il fossile era conservato nel Museo nazionale di Rio de Janeiro, devastato dal fuoco e dall’incuria sapiens.

Foto Giorgio Benni

È RARA LA SENSIBILITÀ di Leopardi, che nel Dialogo della Natura e di un Islandese seppe leggere le esperienze di un’esistenza piena dietro una mummia in vetrina, brutalmente svilita dalla sola narrazione museologica. Ce la ricorda l’auspicio di Porras-Kim: che i musei non somiglino a carceri. «L’involontaria cremazione del 2018 – un rito funebre definitivo – ha paradossalmente restituito a Luzia una libertà che le era stata tolta e che qui viene testimoniata dall’artista», sottolinea il curatore.
Un eguale destino di sudditanza coatta negava una storia ai raffinatissimi cuscini in rafia provenienti dal Congo, arrivati a Roma nel 1518 e raccolti al Collegio Romano da Athanasius Kircher nel 1651. Poi, a partire dal 2017, Sammy Baloji ha iniziato a utilizzarli come matrici per realizzare versioni in negativo fuse in bronzo, con le volontà di riannodare i fili della memoria di tecniche congolesi scardinate dalla tratta degli schiavi e di ammonire sulla rapacità neocolonialista dello sfruttamento minerario.

Originale del cranio neandertaliano Guattari 1 dalla Grotta Guattari Circeo

Di estrazioni illegali parla anche l’installazione a cura del collettivo Karrabing, ideato da una comunità indigena australiana assediata dai cercatori di coltan: un minerale raro indispensabile per il funzionamento degli smartphone. Per scattare una foto conservata nell’archivio del museo, una donna aborigena era stata messa nuda davanti all’obiettivo. Elizabeth Povinelli ha modificato l’immagine, coprendo tutto tranne il volto, in modo tale che il pubblico guardi lei negli occhi. Alla pari.
La collezione coloniale, nel suo persistente abbandono, è sintomatica dell’assenza di un dibattito credibile sulle eredità del colonialismo italiano, che – giova ricordarlo – non è un fenomeno riconducibile alla sola dittatura fascista: l’Italia divenne una potenza coloniale venti anni dopo la sua unificazione e lo restò per quattordici anni da repubblicana.

Piroghe rinvenute sul fondo del lago di Bracciano

I DEPOSITI dell’ex Museo Coloniale sono qui dal 2016, dopo essere passati per il Brancaccio e finiti dal Ministero delle colonie a quello degli affari esteri e, infine, ai beni culturali. Dal 1971, però, sono invisibili.
«Non possiamo limitarci a un ingenuo riallestimento», commenta Lucchetti. «Vogliamo che i materiali coloniali diventino oggetti di studio attraverso azioni condivise che vanno dalla restituzione, alla rielaborazione». Come ha fatto per esempio Rossella Biscotti, che nel 2016 ha visitato l’Etiopia e, dialogando con la comunità locale, ha ottenuto il permesso per documentare i resti di una strage fascista commessa nell’aprile del 1939, quando furono usate armi chimiche per sterminare resistenti etiopi nascosti in una grotta, a Zeret.

Morirono circa duemila persone: alcune a causa dell’iprite, altre falciate dalle mitragliatrici durante la fuga. In Italia si iniziò a parlare dei crimini di Zeret soltanto nel 2006. L’amnesia è grave e le fotografie scattate da Biscotti all’interno della grotta gridano, ma non offrono una cura. Sono istantanee di una resistenza rimossa: focolari, pezzi di ceramica e di vestiti, resti umani tra la polvere scomposti dalle iene. Sono frammenti esposti in un ingresso metodologico.

Nei magazzini, restano invece inascoltati i quadri d’insieme, come le maschere in gesso prese sul volto di persone vive da Lidio Cipriani, tra i firmatari del Manifesto della Razza, per dimostrare la superiorità etnica dei colonizzatori sui colonizzati. «Non pensiamo di avere gli strumenti per lavorare sulla violenza del colonialismo italiano», conclude Lucchetti. «Pensiamo però sia nostro il compito fondamentale di stabilire gruppi di lavoro partecipati e misti che studino le collezioni coloniali. Dobbiamo attivare dei processi di ripensamento, con il contributo di curatori internazionali e artisti. Siamo un laboratorio, non un centro assertivo».