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Quelle sonorità prodigiose

Quelle sonorità prodigiosea sinistra Franco Scaldati, a destra Franco Maresco

Intervista Franco Maresco compone nel documentario «Gli Uomini Di Questa città Io Non Li Conosco» un ritratto omaggio di Franco Scaldati, poeta drammaturgo attore, cantore di un’umanità ai margini

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 gennaio 2016

«Ha passato quasi tutta la vita a riscrivere continuamente i testi già scritti, a limarli, a perfezionarli in una sorta di disperazione perpetua, perché sentiva di perdere nello scritto un qualcosa di ancestrale, quella forza primigenia del verbo, che invece vive ancora nella parola-suono».

Maresco parla così del suo maestro Franco Scaldati, non sbandierando mai quella solidarietà tutta intima che lega certi irriducibili dello spirito, marginali per vocazione etica, antagonisti per necessità. Il documentario Gli Uomini Di Questa città Io Non Li Conosco, passato a Venezia e recentemente riproposto da Associazione Culturale Lumpen al pubblico palermitano sugli schermi del cinema De Seta, contiene l’omaggio commosso del ragazzo Maresco a quel poeta-drammaturgo-attore di qualche anno più anziano che ha saputo fornirgli la chiave di lettura del reale, laterale e nemica delle convenzioni, necessaria a far deflagrare, di lì a pochi anni, la sua corrosiva poetica.

Un altro film sui vinti dopo «Io Sono Tony Scott», «Lo Zio Di Brooklin» e «Belluscone»?
Direi che la continuità più immediata sia con Io sono Tony Scott, perché per quanto i due film parlino di personalità molto molto diverse, entrambi per me incarnano un’idea di artista puro, al di fuori di qualunque tipo di compromesso. Personalità e linguaggi diversi, uno musica, l’altro teatro, ma entrambi mossi da una sorta di irriducibile idealismo, chiamiamolo col suo nome, ed entrambi spinti verso una forma di estremo pessimismo nella fase terminale della loro carriera. Avendo entrambi preso atto della irrimediabile situazione del nostro paese, ed è qui l’analogia con Tony Scott, denunciano un’Italia cialtrona, indifferente, apatica, in cui portare avanti un certo tipo di discorso artistico è impossibile.

Parlando della sconfitta di questa forma di idealismo artistico parli anche della sconfitta di Maresco, del suo ideale etico di cinema?
La componente pessimistica, che già c’era in Cinico Tv e poi nei primi lungometraggi, si bilanciava sempre con il grottesco, col tragicomico, è solo diventata più esplicita da quando mi sono separato da Ciprì (2007), sebbene poi in Belluscone, questo grottesco la faccia da padrone. Forse con gli anni viene meno la forza di, come dicevamo un tempo, cambiare le cose e il lato più pessimista, ma se vuoi anche più sensibile del mio modo di lavorare, viene più fuori. È una componente di melanconia che era presente già dai tempi di Cinico Tv anche se molti non ne tengono conto. Poi è ovvio, la tentazione autobiografica è sempre dietro l’angolo, ci metti sempre te stesso, l’elemento personale. Ho scelto quindi questi due grandi artisti per portare sullo schermo un qualcosa che, almeno in parte, riguardasse anche la mia storia, quello che sto vivendo, la crescente difficoltà nel riuscire a realizzare qualche idea, a proseguire con il proprio lavoro, che per chi trova una collocazione periferica come me è ancora più esasperante perché un certo tipo di cinema, di arte in generale, di cultura trova sempre meno spazi.

Apri il film con un breve pezzo recitato da Scaldati ripreso con modalità del tutto analoghe a Cinico Tv. È forse una dichiarazione di non differenza tra il maestro e quegli sconfitti che lui metteva in scena, e che sono i protagonisti di Cinico?.
Quello è un piccolo estratto dal grandissimo valore lirico dal suo Santa e Rosalia, con la «e» di congiunzione, perché non è della santa, o non solo della santa che si parla. L’ho messo a inizio film, magari rischiando certo folklorismo meridionalista, per offrire da subito una testimonianza forte di come Scaldati abbia saputo utilizzare il dialetto, la lingua palermitana, in una maniera che non ha precedenti, di una poeticità unica e assolutamente lontana da qualsiasi tentazione folkloristica. Parla della santità di Rosalia e contemporaneamente di una ragazzina di un quartiere di Palermo che si chiama Rosalia, ma mantenendosi sublime, senza essere mai folklore. In realtà si tratta di uno dei mezzi busti di Scaldati e Cucinella, che realizzammo con Ciprì per uno spettacolo in cui interagivano con Mimmo Cuticchio, il puparo, solo tramite questi video, accompagnati alla tromba da Enrico Rava e da Salvatore Bonafede al pianoforte. Scaldati aveva un grande talento di attore comico e anche come autore era strepitoso, onnivoro vero, si ispirava al cinema popolare, quello di Totò e Peppino, ai libri ma anche ai fumetti, spaziava da Beckett a Shakespeare, di cui ha straordinariamente tradotto il Macbeth in dialetto siciliano, conosceva l’ Ecclesiaste e il Cantico Dei Cantici, ma anche i gialli e i fumetti. Con il Pozzo Dei Pazzi, forse il suo capolavoro, ebbi un’illuminazione, avevo trovato il mezzo, che cercavo già da alcuni anni, per raccontare Palermo in modo diverso. Il legame con Cinico sta tutto qua, in questa chiave di lettura, di prospettiva sul mondo che mi si è aperta grazie al suo teatro.

Nel rifiuto del teatro convenzionale si annida il rifiuto di Scaldati del «sistema cultura» che lo genera, per effetto di una sorta di politicità implicità della forma che riguarda anche il tuo cinema…
Come autore ha sempre detestato la militanza politica che diventa arte. «A me interessa l’uomo» mi aveva detto in una intervista video, «il suo essere nero dentro, il suo essere merda e sublimità al tempo stesso». Ha evitato quasi meticolosamente ogni tentativo di collocarlo all’interno di un teatro politico. Il risultato poi è sicuramente politico, ma proprio perché non pensato in quella chiave, politico nei fatti. Pensa ai laboratori teatrali nel quartiere Albergheria, nei quali lavora con gli abitanti del quartiere, ragazzi, anziani, gente che vive ai margini, a cui offre una possibilità diversa. In questo senso è un’esperienza di impegno politico straordinario, che Franco però non ha mai esibito, sbandierato. Anzi questo suo essere appartato, invisibile, ha spinto la città politica, il sistema cultura, a far finta di non vederlo, in molti casi.

Scaldati arriva ad abolire la parola per esprimersi attraverso una voce-suono puro, pre verbale e pre culturale, spesso roca, violenta, nella quale si sente l’ugola, la laringe, il fiato, insomma quel corpo che le voci bianche del coro ecclesiale cercano di negare, come certe voci di Cinico…
Franco era dotato di una strepitosa musicalità, motivo per cui lo ho utilizzato nei lavori che hanno a che fare con jazz, come Tony Scott, e una vocalità dotata di sensibilità musicale assistita da un orecchio curioso, che cercava soluzioni sonore sempre nuove. Ha rielaborato i suoni della sua infanzia, della Palermo del dopoguerra, quella più violenta e sotterranea. Da qui ha generato creativamente un universo sonoro che non ha precedenti. Lo paragonerei ad Albert Aymer, il jazzista che ha rielaboarto sino a un vero parossismo sperimentativo la tradizione afro -americana ma conservando l’anima, l’emozione dei suoi antenati. Scaldati, ripesca e risemantizza i suoni di questa Palermo antica, li metabolizza attraverso certo teatro sperimentale di quegli anni, come quello di Bene, che amava, e questo mescola all’arte antica dei cunti dei pupari e del teatro dialettale, in una lingua completamente nuova. Inevitabilmente tutto ciò, in particolare il Pozzo Dei Pazzi si è sedimentato in qualche regione del mio subconscio, che ne sono stato spettatore e, inevitabilmente, avendo lasciato un segno nel mio immaginario, deve averlo lasciato anche nel mio lavoro. Si tenga poi presente che l’umanità che mette in scena Scaldati è la stessa cui facciamo riferimento noi in Cinico. Ho conosciuto un po’ gli stessi personaggi, la stessa umanità, gli stessi quartieri e io sono nato praticamente nello stesso quartiere suo. Inevitabilmente quindi certi suoni certe voci, certi corpi, quelle di una Palermo sull’orlo dell’estinzione, le ho conosciute anche io.

I diseredati scaldatiani diventano tali per via dei rapidi mutamenti sociali, che scardinano il loro mondo di apparenza, i valori che conoscevano. Scaldati pasoliniano?
Con il Pasolini delle poesie in Friulano e con il polemista degli Scritti Corsari condivideva la denuncia della perdita dell’innocenza e del sistema dei valori di riferimento tradizionali. Scaldati amava la sua Palermo, quella del dopoguerra, avvelenata, lo ammette, da una violenza inaccettabile, ma ancora vibrante di una umanità oggi estinta. Una umanità forte, che perfino attraverso il conflitto più spietato esprime una identità precisa. Non un passato da mitizzare, né per Pasolini né per Scaldati, ma una riflessione sulla perdita di umanità, su uno sradicamento. Lo stesso sradicamento che in Belluscone, divide i corpi dei cantanti neo-melodici, tra la modernità dei loro 1000 tatuaggi, e dei mille gadget tecnologici, e l’antichità della funzione ancestrale del cantore di storie che esercitano. La mia però è una fine annunciata, non quella inedita, inaspettata, di cui scriveva Pasolini.

Di nuovo un’estetica del patch-work di materiali diversi, filmati di repertorio, interviste, riprese degli spettacoli, poesia e cinema che era già di «Belluscone»…
In teoria incrociando le dita, dovrei tornare a fare un film senza il microfono in mano, un film film, come era Il ritorno di Cagliostro. Questo discorso sui materiali filmici diversi ha forse meno nobiltà di quanta gliene imputino coloro che mi vogliono bene, ho semplicemente dovuto fare di necessità virtù. Il mio lavoro consiste nel trovare delle idee, tutt’al più scrivere qualcosa e questo è un paese dove nessuno ti chiama per chiederti un soggetto o una sceneggiatura, e se le chiedono non le chiedono certamente a me. Oggi ormai ciascuno fa tutto, non ha bisogno di nessuno, il mestiere più svalutato in quest’era di tecno-demenza, è quello del regista, perché per fare qualsiasi altra cosa hai bisogno di una specializzazione, di una laurea, invece con le nuove tecnologie il regista lo può fare chiunque. Se avessi potuto fare quello che volevo fare non avrei fatto i documentari, avrei raccontato le mie storie in un modo che da un lato so perfettamente essere superato, ma che dall’altra parte è la mia idea di cinema. Nel doverli fare ho cercato comunque un compromesso positivo, per quanto per me molto penoso, tra quello che dovevo fare e quello che volevo fare, uno strano rimandare il precipizio…Belluscone è il risultato di questo compromesso.

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