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Quelle preziose connessioni marine

Quelle preziose connessioni marineTra il 2020 e il 2022 la Tara, una barca a vela di 36 metri attrezzata allo scopo, ha svolto una missione di 270 giorni tra Lorient e il mar di Weddel sulle coste antartiche

Scienza nei flutti Parla Daniele Iudicone, oceanografo alla stazione Anton Dohrn di Napoli e direttore della «Tara Mission». La missione: individuare animali, microalghe, virus e batteri a partire dal Dna contenuto nell’acqua. Gli scienziati indagano i legami nascosti tra gli organismi che vivono negli oceani. Scoperte che rivalutano il ruolo di quegli ecosistemi nei cambiamenti climatici

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 4 dicembre 2022

Quando parliamo di oceano, possiamo riferirci a tante cose diverse: l’enorme quantità d’acqua, il gran numero delle specie che ci abitano, i fondali con i loro ecosistemi. Ma per chi lo studia, l’oceano è una specie di mega-organismo, in cui tutti interagiscono con tutto. L’acqua, i micro-organismi, la fauna marina non si limitano a occupare lo stesso spazio, circa i tre quarti della superficie terrestre: formano una rete di connessioni e relazioni capace di collegare esseri viventi a migliaia di chilometri di distanza e che solo da pochi anni abbiamo iniziato a decifrare.

Daniele Iudicone, fisico di formazione, e oggi oceanografo alla Stazione Zoologica «Anton Dohrn» di Napoli, agli oceani ha dedicato quasi tutte le cento pubblicazioni scientifiche che ha all’attivo. Di recente ha partecipato alla spedizione Tara Oceans (2009-2012), una barca a vela di 36 metri che setaccia i mari di tutto il mondo per censire le forme di vita microbiche che si lasciano trascinare dalla corrente. Un po’ come il Beagle, l’imbarcazione con cui Charles Darwin girò il mondo alla ricerca di specie, ma ragionando per così dire al contrario: mentre il catalogo raccolto da Darwin gli permise di ricostruire il percorso dell’evoluzione delle specie e gettare le basi della rivoluzione genetica, Iudicone e gli oltre duecento colleghi che lavorano alla missione individuano animali, microalghe, batteri e virus a partire dal Dna contenuto nell’acqua.

Daniele Iudicone

Dal 2020 al 2022, la «Tara Mission Microbiomes» diretta da Iudicone ha percorso 70 mila chilometri in 270 giorni dal porto francese di Lorient fino al mar di Weddel sulle coste antartiche, raccogliendo oltre 25 mila campioni. «Dai genomi – spiega il ricercatore – abbiamo scoperto specie di plancton, batteri e virus di cui spesso era ignota l’esistenza». Si stima che ogni litro d’acqua di mare contenga dai 10 ai 100 miliardi di virus, più altri miliardi di batteri tutti da esplorare. «Nel complesso, Tara Oceans ha raccolto una banca dati di oltre duecento milioni di geni», le unità del codice genetico con cui gli organismi marini sintetizzano le proteine e regolano il loro metabolismo.

QUELLO CHE EMERGE è una rete complessa che permette lo scambio di sostanze nutritive tra gli organismi marini. «Non c’è solo il pesce che mangia il gamberetto – spiega Iudicone – ma anche altri tipi di interazione, per esempio di tipo simbiotico o addirittura commensalistico. In cui il rilascio di sostanze nutrienti forma riserve nel fluido che fungono da beni comuni per altre specie».

Studiare l’ecosistema marino come un gigantesco sistema complesso non serve solo ai biologi. Il mare gioca un ruolo cruciale anche per l’evoluzione del clima. Solo negli ultimi anni sta emergendo l’importanza dell’ecosistema oceanico: dalla mutua dipendenza tra le specie dipende la capacità del mare di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera: un freno prezioso per le emissioni che causano il cambiamento climatico. Al punto che qualcuno ha pensato di «ingegnerizzare» gli oceani per immagazzinarci il carbonio in eccesso. «Era una tesi piuttosto in voga qualche anno fa: rilasciare ferro nel mare per facilitare la proliferazione del plancton capace di assorbire il carbonio», ricorda Iudicone. Ma non si sapeva ancora quanto fosse intrecciato l’ecosistema marino. «Ora che abbiamo una maggiore conoscenza della complessità della vita negli oceani sappiamo che non basta fertilizzare il mare per vedere il plancton crescere. Un sistema complesso reagisce in modo non lineare e imprevedibile. Si rischia di non ottenere alcun risultato o, peggio, di perdere il controllo delle conseguenze sull’ecosistema». Nel 2008, l’Onu arrivò a stabilire una moratoria internazionale a questo tipo di esperimenti.

I CLIMATOLOGI, tuttavia, faticano a tenere conto della biologia degli ecosistemi marini, nonostante gli studi ne stiano facendo emergere l’importanza. «Nei modelli con cui i climatologi fanno le loro previsioni, si tiene conto del microbioma oceanico in modo molto rudimentale, sulla base di teorie che risalgono agli anni ’40 del ‘900» racconta il ricercatore. «Si ipotizza che dalla quantità di anidride carbonica disciolta in mare dipenda l’abbondanza complessiva del plancton e viceversa. Invece, gli scambi di sostanze organiche tra plancton e ambiente rappresentano solo il 10% del totale: il 90% degli scambi avviene tra specie e specie. Perciò, la rete ecosistemica è decisiva per capire quanto il mare possa continuare ad assorbire emissioni e ridurre il cambiamento climatico. Mi aspetto che tra dieci o vent’anni queste conoscenze verranno incorporate nei modelli previsionali utilizzati dalla climatologia».

La rete, a sua volta, viene influenzata dal mutamento climatico stesso, «in un modo che abbiamo appena iniziato a comprendere. Da un lato provoca cambiamenti nell’ecologia, con specie che diventano più rare e altre che aumentano la loro presenza. Dall’altra, esercita una pressione evolutiva: le specie stesse si adattano all’ambiente modificato. I biologi propongono quindi un “approccio eco-evo” alle proiezioni».

RACCOGLIERE CAMPIONI da ogni parte dell’oceano ha permesso ai ricercatori di disegnare la «bio-geografia» del mare, un concetto nuovissimo. «Sulla terraferma – spiega Iudicone – ci sono pianure, catene montuose, deserti: aree relativamente omogenee per caratteristiche geofisiche e ecologiche. Abbiamo scoperto che anche negli oceani, un immenso fluido in movimento, l’ecosistema si può dividere in grandi zone omogenee dal punto di vista genetico, sovrapponibili grosso modo alle correnti oceaniche principali. È come se sulla superficie di un fiume vorticoso si osservasse una macchia di colore che rimane immobile. Quando lo abbiamo raccontato ai biologi, molti di loro non volevano crederci. La scoperta doveva apparire sulla rivista Nature, la più prestigiosa per un ricercatore. Ma all’ultimo momento i revisori hanno valutato che era una scoperta troppo inusuale per la biologia tradizionale e hanno deciso che era meglio di no».

Iudicone e gli altri oceanografi della missione Tara non sono gli unici a usare la teoria dei sistemi complessi per analizzare i fenomeni naturali. Giorgio Parisi e il suo gruppo, ad esempio, hanno utilizzato un approccio simile per studiare come gli storni diano vita alle meravigliose geometrie collettive visibili al tramonto nelle nostre città. Iudicone preferisce citare il lavoro di un altro fisico, Alessandro Vespignani, che ha mescolato le carte e utilizzato la teoria delle reti globali per prevedere l’evoluzione dei virus. E oggi le sue previsioni sulla pandemia sono richieste in tutto il mondo.

SEMBRA FACILE, e pure divertente. Ma se sei uno scienziato e ti poni sul confine tra discipline diverse decidi di correre un rischio: puoi diventare un outsider da entrambi i lati della recinzione, perdere l’accesso a cattedre, pubblicazioni, collaborazioni. Se va bene, però, puoi dare vita a un campo nuovo, in cui i climatologi si mettono studiare la genomica e viceversa, e magari vinci pure un Nobel. C’è da sperare che in tanti vogliano rischiare: di scienziati meno specialisti, ma in grado di cogliere la complessità della nostra epoca, abbiamo un maledetto bisogno.

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