Cultura

Quelle parole laboriose tra conflitto e ospitalità

Quelle parole laboriose tra conflitto e ospitalitàParole e Lettere - foto Ap

SCAFFALE «Siamo ciò che traduciamo», a cura di Stefano Arduini. Edito da Marcos y Marcos con saggi di Franca Cavagnoli, Franco Nasi, Daniele Petruccioli e Enrico Terrinoni

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 22 agosto 2024

Siamo ciò che traduciamo è il titolo di un piccolo e densissimo volume pubblicato di recente da Marcos y Marcos (pp. 272, euro 16) per le cure del linguista Stefano Arduini che qui propone «cinque discorsi sul tradurre» sviluppati da lui e da altri quattro colleghi (Franca Cavagnoli, Franco Nasi, Daniele Petruccioli e Enrico Terrinoni), tutti «traduttori di lungo corso». La definizione sulla quarta di copertina, apparentemente riduttiva, dato che i cinque autori da sempre affiancano alla pratica della traduzione una riflessione teorica sul tema, si rivela invece un utile indicatore per leggere un testo dove – secondo la linea tracciata fra gli altri da Antoine Berman – la teoria non si può disgiungere dalla prassi, e viceversa.

DEL RESTO, già nel titolo appare evidente una prospettiva lontana dalla impostazione, diciamo così, tecnicistica dei translation studies – oggi dominante soprattutto nei paesi di lingua inglese – e semmai uno sguardo umanistico, nell’accezione più piena del termine, al punto da far coincidere il tradurre con la nostra stessa specificità di umani. «Traduco ergo sum», verrebbe da dire allora, parafrasando scherzosamente Cartesio in latino maccheronico, e la battuta non sarebbe poi azzardata, dal momento che in modo più o meno esplicito tutti i testi contenuti in Siamo ciò che traduciamo vedono nella traduzione – o meglio, precisa il curatore nelle pagine introduttive, nel tradurre – una pratica filosofica (del resto, di Heidegger è l’epigrafe iniziale «Dimmi come consideri il tradurre e ti dirò chi sei», e Perché tradurre. Ovvero la traduzione come filosofia si intitola scopertamente il contributo di Arduini che chiude il volume). La differenza posta fra «tradurre» e «traduzione» non è di poco conto, perché sposta l’attenzione dal prodotto finale, ormai chiuso e costretto alla staticità, all’azione che porta a quel prodotto e che è invece calata nel divenire del tempo, improntata al «continuo movimento di un testo, sottoposto a riletture e riscritture che aprono a nuove interpretazioni e idee».

È QUESTO TRADURRE, inteso come slittamento dall’esito al processo creativo, uno dei sette cardini che i cinque autori, pur nelle differenze, riconoscono fondamentali nella loro visione del gesto di traduzione, che comprende l’esperienza come apertura verso il (proprio) cambiamento; la conoscenza in quanto sapere concreto, pur esso esperienziale; l’alterità, da riconoscere e mantenere come «luogo di rispetto» dell’altro e di sé; e, speculare a questa, l’accogliere, che proprio grazie al rispetto, evita di diventare appropriazione; infine identità, cioè la necessità – nel confronto con l’altro – di interrogarci su chi siamo, e trasmutare, quasi un alchemico miracolo di trasformazione da un testo a un altro testo, che è poi lo stesso miracolo di cui noi viventi siamo costantemente agenti e portatori.

Affini, ma non perfettamente allineati, come si è detto, i cinque «discorsi». Per Petruccioli e Cavagnoli, forse più ancora che per gli altri, la parola chiave è «interpretazione» – non casualmente, per Petruccioli che a lungo si è dedicato al teatro, la stessa usata dagli attori nel loro confronto con la «tridimensionalità» del testo, mentre Cavagnoli preferisce sottolinearne l’intrinseca spaziosità, e dunque la sua nativa «ospitalità».

SE PER LORO IL TRADURRE assume connotati materni (essendo il rapporto madre-figlio il primo esempio di vissuta traduzione), Nasi e Terrinoni non si tirano indietro rispetto a quanto di conflittuale e bellicoso il tradurre può comportare nel suo percorso di trasmutazione: «la traduzione – scrive fra l’altro Nasi – è in sé un atto di addomesticamento», che dovrebbe tuttavia resistere alla semplificazione vera o presunta verso cui ci porta lo Zeitgeist (l’intelligenza artificiale, la traduzione meccanica) e ancora più duro è Terrinoni: per lui la traduzione «è anche violenza, è scassinare uno scrigno». Abbracciando le due polarità, Arduini evoca Lévinas e parla infine della «sfida di amare lo straniero», così che il tradurre si offre come potenziale strumento filosofico per affrontare la nostra tormentata contemporaneità.

È un auspicio che non si può non condividere, e tuttavia chiuso il libro, la cui lettura si raccomanda non solo a chi traduce (da una lingua all’altra), ma a chi fa uso consapevole delle parole (cioè sa quanto sforzo si compia nel passare dal fluttuante pensiero non verbale alla rigida legnosità di una frase), è impossibile non chiedersi quanto a lungo resisteranno i cardini individuati da Arduini e dai suoi valenti colleghi, e quali forme prenderanno le esperienze e le conoscenze in un mondo che a queste esperienze e conoscenze pare sempre più indifferente.
Se è vero che «siamo ciò che traduciamo», forse è vero anche l’inverso, che traduciamo ciò che siamo – e forse su «ciò che siamo», oggi più che mai è lecito nutrire dei dubbi.

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