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«Quelle microplastiche nei suoli che escono dai depuratori»

Intervista I fanghi reflui vengono utilizzati come fertilizzante in agricoltura. Spargendo fino a 430 mila tonnellate all’anno di scorie nei terreni

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 12 settembre 2019

Abbiamo visto quanta microplastica fluttua nei mari. Nei suoli ce n’è 23 volte di più, in particolare nei suoli agricoli. Stiamo parlando di frammenti di plastica di varia natura, di dimensioni che variano da 5 millimetri fino a 0,1 micrometri, quindi in parte visibili a occhi nudo e in gran parte non visibili. Nel suolo finiscono anche le nanoplastiche (da 1 a 100 nanometri). Stime dicono che nelle aree più contaminate si trovano fino a 40mila frammenti per kg di suolo, il 7% del peso, mentre in zone incontaminate, come le aree naturali in Svizzera i valori scendono a 0,02% del peso.

Altri studi in un’area di Parigi hanno individuato 300 microplastiche per metro quadro al giorno. Quello che si sa per certo è che le microplastiche sono dappertutto, persino nelle zone artiche. Entriamo in un campo di studi recente, con le prime pubblicazioni uscite tre anni fa, di cui si sa poco, ma quel poco è sufficiente a porre seri quesiti sulle pratiche agricole più diffuse.

A studiare le microplastiche nei suoli sono ancora pochi ricercatori, tra loro un italiano che lavora per il Norwegian Institute for Water Reasearch, Luca Nizzetto: i suoi studi hanno dimostrato che le plastiche nei suoli agricoli arrivano in gran parte dai fanghi reflui degli impianti di depurazione delle acque che vengono sparsi sui campi come fertilizzanti (pratica vietata nelle colture bio).
«Gli impianti di depurazione delle acque sono parecchio efficienti, trattengono varie tipologie di inquinanti, tra cui anche una parte delle microplastiche – ci spiega Nizzetto – che finiscono nelle acque da varie fonti: i tessuti di polyestere, e in generale tutti i tessuti sintetici, rilasciano microplastiche quando vengono lavati, così come i residui di vari cosmetici, dai dentifrici al maquillage. Le nostre case sono piene di prodotti di plastica, comprese le vernici, che sono soggetti a usura e quindi a rilasciare frammenti nell’ambiente che poi vengono dilavati e finiscono via fogna nel depuratore. Lo stesso fenomeno avviene nelle città: molti edifici hanno rivestimenti in plastica che si deteriorano e i cui frammenti finiscono nelle fognature. Poi c’è tutto il settore industriale che produce ogni genere di scarti contenenti plastica.

Un’altra enorme fonte di microplastiche deriva dall’abrasione dei pneumatici delle automobili: tutti sanno che una gomma consumata pesa molto meno di una gomma nuova, e la differenza finisce in parte nei terreni circostanti e in gran parte in fognatura, passa nel depuratore e poi sparsa sui campi».

Si calcola che sui suoli agricoli europei vengano sparsi dalle 63mila alle 430mila tonnellate di microplastiche all’anno (in Nord America, da 44mila a 300mila tonnellate all’anno). «La forbice è così ampia perché si tratta di calcoli indiretti, quindi ancora imprecisi», precisa Nizzetto che ci spiega come si analizzano e valutano le microplastiche nel suolo: «Si parte da campioni di suolo complessi, che contengono molti elementi: la parte organica viene separata con particolari acidi che la digeriscono. A questo punto rimangono minerali e la plastica: questa viene fatta galleggiare, essendo più leggera, con diluizioni di acqua e sali e quindi osservata in parte od occhio nudo, in parte con il microscopio, oppure anche con sensori ad infrarosso che ci dicono di che polimero è composto ciascun frammento, facendo una scansione pixel per pixel. Però le particelle inferiori ai 20 micrometri non riusciamo ad analizzarle: le vedrebbe un microscopio elettronico, senza però dirci di che cosa si tratta. Quindi sotto una certa soglia non abbiamo, per ora, strumenti di analisi». Questi primi studi stanno aprendo una breccia in un sistema che non ha neppure una vera e propria regolamentazione. Il sistema Reach (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) dell’Ue «non si occupa di polimeri. Stiamo aprendo gli occhi su un problema nuovo».

Quali effetti le micro e nano plastiche hanno sullo straordinario laboratorio di vita che è il suolo è oggetto di studio di un gruppo di ricercatori di vari istituti di Berlino e Tubinga, coordinati da Anderson Abel de Souza Machado. «La questione è molto complessa, ma già possiamo affermare che le microplastiche hanno effetti sul biota del suolo e possono cambiare in modo sostanziale le funzioni dei sistema terrestre – ci dice Machado, che il 25 aprile scorso ha pubblicato su Environmental Science & Technology un articolo dal titolo «Le microplastiche possono cambiare le proprietà del suolo e influire sulla crescita delle piante». Lo studio ha preso in esame gli effetti di sei diverse microplastiche (fibre di polyester, perle di polyamide e quattro frammenti di polyetilene, polyester terephthalato, polypropylene e polystirene) sulla crescita del cipollotto (Allium fistulosum): variazioni significative sono state osservate nella biomassa della pianta, nella composizione dei tessuti e delle radici e la cause probabili sono da ricondursi ai cambiamenti della struttura del suolo e delle dinamiche dell’acqua dovuti alla presenza della plastica. «Siamo agli albori di questi genere di studi e quindi non possiamo generalizzare gli effetti – precisa Machado – anche perché esiste un’estrema varietà sia di piante sia di tipologie di plastica. Quello che posso affermare è che la presenza delle microplastiche può alterare le proprietà biofisiche del suolo e quindi ha conseguenze sulla crescita delle piante».

Le materie plastiche non hanno purtroppo mai smentito le loro caratteristiche di durevolezza e resistenza, quindi rimarranno a lungo nei suoli. «Il tempo potrebbe fare il suo corso: i polimeri possono degradarsi fino a diventare monomeri, il polietilene si degrada fino a diventare etilene, cioè un gas, ma sono necessari secoli – dice Nizzetto – inoltre, attraverso la continua frammentazione si generano le nanoplastiche che hanno maggiori possibilità di interazioni con il biota e quindi di penetrare nelle cellule».

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