Visioni

Storie, sogni e desideri di anime prigioniere

Storie, sogni e desideri di anime prigioniereUna scena tratta da «Naturae 2021» – foto di Stefano Vaja

A teatro «Naturae 2021» è il nuovo progetto della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo. L’impronta che lascia la rappresentazione è forte, scopre il contrasto tra le tante culture chiuse nelle nostre carceri

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 31 luglio 2021
Gianfranco CapittaVOLTERRA (PISA)

Da molti anni Armando Punzo conduce nel carcere di Volterra la sua ricerca di una nuova lingua teatrale assieme ai detenuti della casa penale ospitata dalla Fortezza che domina la città, la valle e l’intero paesaggio di una terra dura quanto meravigliosa. In questi anni l’artista, con la sua Compagnia della Fortezza, conosciuta e apprezzata in Italia e fuori (per quanto questioni di «sicurezza» e di pene da scontare limitino rigidamente i loro spostamenti), ha attraversato i codici, le parole e il pensiero di tutta la cultura occidentale, e non solo. Le «gambe» su cui Punzo ha fatto procedere quel percorso sono stati titoli e autori fondamentali e non solo del teatro, da Shakespeare a Genet a Borges.

DAL PRIMO «MOVIMENTO» di questo lavorìo, in qualche modo mimetico ma già allora meraviglioso, di una lontana Gatta Cenerentola (ormai più di trent’anni fa) si era passati all’appropriazione via via sempre più «intima» di personaggi e leggende della scena con cui ingaggiare letteralmente dei «corpo a corpo» che hanno fatto epoca. Il «problema» era semmai (almeno per lo spettatore) che quelle fonti, citazioni, percorsi di fisicità e movimento, hanno costituito giacimenti massicci e talvolta quasi perfino «ingombranti»: fonti di riflessioni e pensiero, che il rapporto teatrale tra attore e spettatore possono però rischiare di affascinare, quanto complicare. Questa volta invece, nel nuovo progetto Naturae 2021, sempre su quella stessa terrazza infuocata dal sole (con un pubblico minore per via delle restrizioni sanitarie) si coglie subito una differenza sostanziale. In uno scenario tutto di un bianco assoluto, che uniforma la vista in una sorta di effetto ottico di malattia, Punzo prende subito la scena leggendo un testo di ponderose visioni del mondo, di come attraversarlo, in un racconto ellittico ma molto «in prima persona», almeno all’apparenza. Ma a calamitare l’attenzione sono i tre uomini (due di origine africana) che si applicano a girare su se stessi in maniera ossessiva (mentre la temperatura è pressoché insostenibile per tutti) facendo roteare a loro volta su mani e spalle delle enormi gabbie grigliate, candide anch’esse, nei cui spazi vuoti lo stesso Punzo fa entrare ed uscire voluminosi oggetti. Come fosse una danza derviscia o un qualche altro rito di progressiva possessione, che è forse il motivo per cui non viene mai a mancare il sorriso sui loro volti, così come il sudore che ne cola abbondante.

MA CHE IN MODO cospicuo coinvolge la sensibilità anche del pubblico (fortunatamente seduto) evocando nello stesso tempo la sensazione tangibile di vite rinchiuse, anime prigioniere, che senza troppe speranze si avvitano in movimenti del pensiero per cose, e situazioni, e sogni e ricordi. Con una consapevolezza però che li fa ancora, e vistosamente, sorridere, nella coscienza atroce di vite destinate a ruotare su se stesse, seppure felici di socializzare quei loro brividi. Proprio come fino a qualche tempo fa accadeva con grande pathos in certi santuari di devozione del nostro meridione. È l’immagine più forte dello spettacolo, e la più crudele, con quelle gabbie enormi dentro cui possono entrare e uscire oggetti, persone e personaggi, mentre le si fa ruotare con leggerezza, in una infinita rincorsa di Sisifo e Tantalo, che sempre li riporta allo stato iniziale.

UNA IMMAGINE che, come in un sogno perverso, si anima di tante altre presenze: alcune donne rinchiuse nelle loro redingotes, altri compagni di ventura che innalzano altissimi bastoni oscillanti, alla cui sommità sventolano stendardi o drappi di qualche ritualità, e poi dei danzatori davvero fiammeggianti nei colori, ma ruotanti anch’essi come dervisci. C’è perfino un giapponese, in una gabbia fatta lettiga, che si bea nel suo sontuoso kimono (l’ensemble dei detenuti attori conta come sempre diverse decine di partecipanti, delle più diverse origini).
La rappresentazione (davvero «sacra» si potrebbe questa volta azzardare a dire) dura non molto tempo, in tutto meno di un’ora. Eppure l’impronta che lascia è fortissima: scopre in maniera iconica il contrasto tra le tante culture, e i giacimenti di infinite storie ed esperienze personali, che stanno chiusi nelle nostre carceri, e la possibilità feconda (la voglia almeno, se non l’imperiosa necessità), di uscire e offrirci un confronto sicuramente fruttuoso.

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