La gran parte del dibattito contemporaneo sul ruolo degli intellettuali e sulla rottura del nesso tra cultura e politica – si pensi ad autori come Giorgio Caravale già recensito su queste pagine, a Sabino Cassese e altri – in questo tempo scomposto e assai difficile da comprendere come un blocco monolitico, sembra girare fondamentalmente attorno a tre assi sintomatici: il ruolo svolto dalle ideologie e dalla de-politicizzazione, il ruolo svolto dai «tecnici», dagli «esperti» e dai «think tank», l’autopoiesi progressiva e talvolta senza speranza del ruolo svolto dalle accademie ormai aziendalizzate e chiuse su se stesse da anni.

SE SI PROVANO, infatti, a comparare le teorie dei classici novecenteschi sul tema, come le analisi svolte da Pierre Bourdieu sull’homo academicus e il ruolo della «scienza» nell’incidenza del corso degli eventi politici; di Max Weber e delle sue interrogazioni sul lavoro politico e intellettuale come professione; di Michel Foucault e della sua analisi critica dell’intellettuale universale, militante e engagé, versus l’«intellettuale specifico» in grado di collocarsi dentro e fuori l’accademia con il solo scopo di esercitare la «parresia» (dire la verità) sul potere; nonché di Antonio Gramsci e la sua teoria dell’intellettuale organico ripresa anche dai cultural studies e dai subaltern studies, diventa davvero difficile capire quale possa essere oggi il nostro ruolo. Se a questo aggiungiamo anche i mutamenti di scala generati dalla rivoluzione digitale la matassa si complica ulteriormente. Un po’ perché leggere solo il presente senza fare riferimento alla storia novecentesca può condurci verso lo sgomento del «nulla» o verso quel «chiaroscuro» in cui si annidano i mostri di cui parlava il già citato Gramsci e un po’ perché non v’è sintomo svelabile senza fare riferimento al passato e ai traumi originari, nonostante sia chiaro a tutti che non sarà certo la «nostalgia» a trasformare o a ridare consistenza a questo tempo orfano di senso e direzioni.

Sul primo asse sintomatico sopra citato può certamente venirci in soccorso il recentissimo volume di Manuel Anselmi dal titolo Ideologie politiche (Mondadori, pp. 135, euro 16). Con il suo approccio morfologico, l’autore ripercorre prima il profilo storico e tematico del concetto di ideologia attraversando autori classici come Marx, Mosca e Pareto, Manheim, Gramsci e Althusser, nonché autori più contemporanei come Geertz, Van Dijk, Stuart Hall, Freeden, Thompson, per poi approfondire il rapporto tra ideologie, populismi e de-politicizzazione che tanto caratterizza la contemporaneità, sino alla stesura di un capitolo su come si può risignificare oggi la famosa dicotomia destra/sinistra già abbondantemente trattata da Bobbio sul versante filosofico-politico.

CERTAMENTE, quest’ultimo non avrebbe mai potuto immaginare quanto la dicotomia novecentesca sarebbe stata rovesciata dalla e-democracy con tutto il suo paradossale e tautologico portato ideologico contro le stesse ideologie, nonché ben rappresentato da retoriche ossimoriche quali «uno vale uno» e «né di destra, né di sinistra» ovvero di destra, verrebbe da dire, andando persino in barba all’ironia giocosa, anch’essa novecentesca, del cantautore Giorgio Gaber. Tuttavia, al netto delle ricostruzioni sociologiche, i filtri interessanti di questo testo critico, ma al contempo generativo – perché rilancia senza cedere alla disperazione sulle ideologie più culturaliste legate al green e ai femminismi come possibili soluzioni in grado di orientare la politica al presente – sono rintracciabili in due punti: da un lato l’impossibilità di pensare la storia come un insieme di cesure; dall’altro la necessità di leggere la rottura del nesso tra politica e cultura come un esito inevitabile forgiato dal modello di sviluppo neoliberista.

Le ideologie, infatti, secondo Anselmi non sono scomparse, ma sono andate convogliandosi verso un’unica ideologia al momento egemone rappresentata dal Dio mercato e dal processo di neoliberalizzazione dello Stato il quale ha generato da una parte un neoliberismo di destra (libertà di impresa e al contempo rilancio di culture reazionarie e conservatrici) e dall’altra un neoliberismo di sinistra (libertà di impresa e al contempo un rilancio progressista della coppia diritti sociali/diritti civili), con un evidente sbilanciamento dei populismi contemporanei verso il primo modello. Come scrive l’autore, «la ’fine delle ideologie’ è soprattutto una formula retorica corrispondente a una strategia di mascheramento da parte di una ideologia specifica egemone. Il problema più che altro deve essere posto nei termini di visibilità e invisibilità del potere dominante».

L’IDEOLOGIA DEL TEMPO apparentemente privo di ideologie genera a sua volta nuovi protagonismi di intellettuali non più agganciati alla volontà di diffondere e rendere popolari le idee di un partito politico o di un movimento, bensì legati alla volontà di fare propri gli stratagemmi comunicativi che nella migliore delle ipotesi risultano legati alla trasformazione di quelle stesse idee in un «brand» di partito o, nella peggiore delle ipotesi, ad un uso personalistico dello stesso.
Nel regno del secondo sintomo sopra accennato, dunque, ci si può facilmente imbattere in una sorta di «Io-crazia» imperante che finisce con il considerare il partito come una zavorra a vantaggio di uno spregiudicato marketing del sé. In altre parole e come sostiene Mattia Diletti nel suo volume appena dato alle stampe Politica e intellettuali. Ideologi, esperti, think tank (Mondadori, pp. 152, euro 16) si è passati dalla considerazione del partito come un inutile laccio collettivo atto a contenere il narcisismo del leader ad un think tank personale atto a costruire brand individuali, al limite associati ad imprese, senza alcun impiccio collettivo.

ANCHE QUI siamo nel regno dell’intellettuale e del politico direttamente costruiti dagli standard comunicativi dell’ideologia neoliberista. Eppure, come ci dimostra Diletti, quest’ansia aziendalistica che alcuni manager italiani hanno voluto trasferire sulla figura dell’intellettuale (divenuto nel frattempo «tecnico» o «esperto») e della politica intesa come l’ancella prediletta del mercato sembra essere andata in crisi, tanto è vero che se ne sta riparlando in un’ottica critica. Certo, non è una crisi che ci riconduce al Novecento e a quel nesso virtuoso che portava a non scindere quasi mai politica e cultura, persino tra le masse che prendevano coscienza della loro condizione da auto-didatta, quanto piuttosto una crisi che porta ad una sfiducia generalizzata di quelle stesse masse verso la politica. Oppure, come contraltare, mira a favorire un’idea di cultura elitaria, nonché principalmente segnata da una fruizione che nasce e finisce nel culto dell’evento e nei suoi fatui rituali di socializzazione già abbondantemente depoliticizzati.

E ARRIVIAMO COSÌ al terzo sintomo: l’autopoiesi delle accademie. In un volume a cura di Vincenzo Mele, Fabio Mengali, Francesco Padovani e Alessia Tortolini dal titolo piuttosto eloquente L’accademia e il fuori. Il problema dell’intellettuale specializzato in Italia (Orthotes, pp. 263, euro 23), ricercatori precari e non provano a tessere le fila delle ripercussioni sulla politica e sulla conoscenza qualche anno dopo la riforma Gelmini, anche se il percorso di «aziendalizzazione» della stessa comincerà già con la prima riforma Berlinguer.

Tra disperate condizioni materiali di vita dei precari della conoscenza, un’idea di intellettuale accademico che sembra rispondere solo agli stakeholders o ai criteri di valutazione basati sul mito di una produttività che va sempre più a scapito della qualità della ricerca, al punto da chiamare «prodotto» un saggio o un libro, tra forme estreme di individualismo competitivo, solitudine e principio di prestazione sanciti dall’ideologia neoliberista il risultato non può che essere una sollecitazione continua a divenire «un’eccellenza tra le macerie» – per parafrasare uno dei saggi del volume.

Una bella metafora su cui riflettere, almeno sino a che tutti i sintomi si interromperanno e nascerà qualcosa di diverso. Qualcosa che butti via le macerie e le scorie di questo tempo al fine di valorizzare, trasformandole, solo le rovine di un mondo senza falsi miti dediti solo alla mercificazione e al Dio della produzione senza creazione. Perché si sa, dalle macerie non nasce niente, mentre dalle rovine può rigermogliare la storia.