Quelle amicizie sentimentali
Cannes 68 «Les deux amis», primo lungometraggio di Louis Garrel alla Semaine de la Critique
Cannes 68 «Les deux amis», primo lungometraggio di Louis Garrel alla Semaine de la Critique
In perfetta continuità familiare, Louis Garrel presenta il suo passaggio dietro la macchina da presa alla Semaine de la critique. Les deux amis, film tanto atteso quanto superficialmente trattato alla stregua di un giocattolo di un divo diventato suo malgrado il simbolo dei bourgeois-bohème, è un esordio sensuale, sincero, a tratti indeciso nella scelta del registro da adottare, attraversato da una elettricità spontanea che s’insinua nello sguardo colpendo al cuore. Mona (Golshifteh Farahani) lavora durante il giorno in uno snack-bar della Gare du Nord.
Clement (Vincent Macaigne) la corteggia ma non capisce perché debba sempre rientrare ogni sera prima delle nove. Decide quindi di chiedere consiglio e aiuto ad Abel (Louis Garrel) il quale, impedendo a Mona un pomeriggio di prendere il treno per tornare, scatena una drammatica catena di eventi. Louis Garrel, nel mettere in scena una storia che a prima vista parrebbe una rilettura trasversale del cinema paterno, adotta un approccio fisico e una prossimità quasi tattile che nel contrasto del gioco d’attore fra lui e Macaigne si apre inaspettatamente alla commedia.
La nudità con la quale mette in scena il suo film e la precisione delle stoccate ironiche che Clement rivolge ad Abel (dirette evidentemente all’immagine pubblica e glamour del neoregista), sono i principali elementi testimonianti l’investimento emotivo e umano garrelliano nel progetto. Consapevole delle accuse che puntualmente i detrattori gli avrebbero rivolto, Louis Garrel sfodera non solo una delle sue interpretazioni più convincenti degli ultimi anni ma, soprattutto, manifesta un piacere schiettissimo del fare cinema. A tratti, addirittura una necessità. Educazione sentimentale in forma di combat d’amour, il film è sensuale blues urbano. Un atto di puro godimento cinematografico. Principio di piacere che diventa gesto filmico. L’apice, e senz’altro il momento più sorprendente del film, è la ricreazione su un set cinematografico degli scontri parigini del maggio ’68 al grido di «Ce n’est qu’un début continuons le combat!» dove Abel e Mona scoprono di amarsi e Clement, dalla disperazione, si taglia le vene.
Con una precisione rara in un esordiente, Garrel omaggia il padre intrecciando magistralmente in un’unica parabola cinema, amore e politica. Il vagabondare notturno, nel quale Macaigne, malato d’amore, si offre come una versione giullaresca del broncio di Garrel, è segnato da momenti di nudità lancinanti, nei quali traspare il piacere, contagioso, della performance dei protagonisti. Esemplare il momento in cui Mona balla da sola in un bistrò prima di entrare con Abel in una chiesa. Louis Garrel non tenta di reinventare calligraficamente un cinema che ha conosciuto attraverso il padre. Mette in scena una pratica del cinema, cosa completamente diversa. Una pratica che rivendica con pieno diritto.
Ed è nella danza fra lui e Macaigne che vanno colte le discontinuità dal modello. Macaigne, con la sua vulnerabilità logorroica, offre una versione antieroica del tipico protagonista garrelliano. Pur citando alla lettera il cinema del padre (J’entends plus la guitare), Louis imprime al suo film un’agilità punk da B movie. Il passaggio del testimone, dunque, non si compie nel segno di un manierismo poetico, quanto nella efficacia artigianale di un cinema che sceglie immediatamente il proprio campo. Nonostante abbia trascorso «tant d’heures sous les sunlights», Louis Garrel accetta la scommessa di praticare un cinema inattuale. Resistenziale, a suo modo. In continuità con un’idea di lavoro e di mondo che, seppure espressa ancora in forme non del tutto compiute e a tratti addirittura acerbe, testimonia di una generosità mai banale.
E nel rapporto fra Philippe e Louis si può tracciare la medesima filiazione ideale che corre fra Mick Jones e i Libertines. Certo, probabilmente questa canzone l’abbiamo già sentita. L’energia, però, quella è sempre nuova. E fa venire voglia di ballare. «Brutto segno», direbbe Mona. Prima di accogliere la notte e vivere. Di nuovo.
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