Pietro Perugino, “Ritratto di Lorenzo di Credi” (part.), 1478, Washington, National Gallery of Art

Si è paragonata spesso l’ascesa di Perugino e quella di Giotto. La loro fama ha toccato quasi tutta la Penisola, da Milano a Napoli, in una costellazione di cantieri e richieste più o meno esaudite; in entrambi i casi la formula figurativa messa a punto si è trasformata in un paradigma, quasi una lingua sovranazionale che ha segnato – con debite differenze – dei momenti di conformità nel policentrismo tipico delle regioni italiane garantendo, ovviamente, anche un’affermazione imprenditoriale. Pietro Vannucci detto Perugino diventa il «primo pittore del mondo» (una formula ribadita persino nei contratti) attraversando più e più volte i confini di un’Italia allegramente frammentata, in un’osmosi tra corti incalzata dagli umanisti o ricercata per via di omaggi, lettere, matrimoni e tresche di letto.
Fino all’inizio del Cinquecento la fortuna del pittore presso i contemporanei non è diversa da quella toccata a Mantegna o a Bellini: è un artista richiestissimo, strategicamente sponsorizzato da umanisti e poeti. Nel nuovo secolo il suo mito non regge però il cambiamento e quell’«aria angelica, et molto dolce» che aveva conquistato le corti italiane è la causa stessa della sua rapida marginalizzazione. Nella sua terra natale e nelle periferie dove gli aggiornamenti faticano a diffondersi, i riflessi e le riprese delle sue formule di successo durano ancora per qualche anno, in un oblio più lento, strascicato. Nel frattempo la palma di «primo pittore del mondo» passa a un suo allievo, cioè Raffaello, e grazie a strumenti figurativi di cui il vecchio Perugino non aspira nemmeno a conoscere i meccanismi, tutto preso, dirà Vasari, a mettere «in opera bene spesso le medesime cose». E lo faceva – qui Vasari è ancora più maligno – perché Pietro, che con il suo «cervello di porfido» non credeva all’immortalità dell’anima ma solo alla materialità della vita, «per danari avrebbe fatto ogni mal contratto», guadagnando effettivamente «infinite ricchezze».
Fino all’11 giugno la crescita e il ruolo fondamentale di Perugino nel panorama dell’Italia rinascimentale si misurano ne Il meglio maestro d’Italia Perugino nel suo tempo, a cura di Marco Pierini e Veruska Picchiarelli. Nelle sale della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia l’ascesa dell’artista si segue splendidamente, in un’infilata di confronti serrati che costellano più di vent’anni di storia della pittura. Finché la formula Perugino si salda, e deflagra; fino all’apice, a un minuto dalla caduta.
Della formazione si sa poco. C’è stato un probabile apprendistato nella Perugia degli anni sessanta del Quattrocento, poi Pietro si sposta a Firenze, nella bottega di Verrocchio, una factory intorno a cui gravita il meglio dell’arte contemporanea: Leonardo come compagno di studio e Ghirlandaio, Botticelli, Bartolomeo della Gatta, Francesco Botticini e via di seguito, con cui scambiare idee, magari mentre si dipinge, fianco a fianco, in pale come quella in San Martino a Strada. Si sgomita tra i modelli del maestro, conformandosi alle eleganze esasperate dei grafismi e dei dettagli da orafi. Perugino cerca però di sciogliere i gesti manierati – Vasari direbbe «crudetti» – con una luce più naturale e un po’ di superficiale leggerezza (nella Madonna con il Bambino dal Jacquemart-André e nella Pietà del Farneto), trovando presto un equilibrio che mostra tanto di Verrocchio e di Domenico Veneziano, ma anche di Piero della Francesca e della cultura prospettica urbinate, nell’attenzione sensibile per una luminosità che definisce le geometrie e distilla lo spazio. Come nelle tavolette con i miracoli di San Bernardino del 1473: sono evidenti le mani di pittori diversi, ma l’impostazione generale appartiene alle ambizioni di un solo artista, allenato tanto a Firenze quanto a Perugia e Urbino.
A quel punto Perugino è già un pittore «in tanto credito», con commissioni di rilievo. Le sue attenzioni cambiano, così come cresce la voglia di affermarsi con un proprio modo di vedere e dipingere il mondo. Nell’Adorazione dei magi voluta da Braccio Baglioni per Santa Maria dei Servi a Perugia si ritrae tra la folla. Come a dire: questo sono io, questa è farina del mio sacco e un tassello per la crescita della mia fama. Sperimenta su tecnica e formato; allarga lo sguardo a un paesaggio arioso che digrada nei toni dell’azzurro, tornendo e semplificando le rocce e gli strapiombi di Verrocchio. È pronto per Roma: intorno al 1478 Sisto IV della Rovere gli chiede di affrescare la cappella della Concezione in San Pietro. La decorazione, distrutta nel Seicento, convince il papa ad affidargli la regia dell’intera Cappella Sistina.
È un trionfo, forse il momento più alto della carriera. L’impresa sistina, sotto il cielo stellato della volta di Piermatteo d’Amelia (il cui disegno è prestato dagli Uffizi), coinvolgeva Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli e squadre di aiuti, e alla GNU è evocata attraverso l’accostamento di alcune opere. Proprio sui ponteggi della Sistina si stringe – o rinsalda? – il rapporto Perugino-Luca Signorelli.
Ci si può ragionare confrontando la Crocifissione per i Gesuati di San Giusto alle Mura di Firenze del primo con la pala di Sant’Onofrio dell’altro. C’è, in entrambi, come una lievitazione monumentale; vale certo Piero della Francesca, ma nel mucchio dei riferimenti possibili bisogna pensare anche a Bartolomeo della Gatta e a molta pittura fiorentina. Luca cita Pietro, e risponde alle sollecitazioni addolcendo le espressioni quanto può; allunga le ombre oblique dei suoi personaggi e li addossa quasi tutti sullo stesso piano, proprio come nelle opere del collega. Poi basta girarsi verso il trittico coevo della National Gallery di Washington, commissionato a Perugino a Roma dal vescovo Bartolomeo Bartoli, per cogliere un ritmo diverso, pausato da simmetrie calibrate e reiterazioni delle pose; si capisce che gli inserti naturalistici, sfruttati anche da Signorelli, sono suggestionati dalla pittura fiamminga. Sotto queste prove tanto diverse, in cui il linguaggio si fa sufficientemente elastico da adattarsi ai gusti della committenza, ribolle ancora la determinazione al successo di quello che ormai è considerato «un divin pictore» (la definizione è di Giovanni Santi, il poeta-pittore padre di Raffaello).
Nella sala successiva è esposto il Compianto degli Uffizi, «intirizzato come se e’ fusse stato tanto in croce, che lo spazio e il freddo l’avessino ridotto così». Vasari, di nuovo, non cela la sua antipatia per l’artista umbro, ma coglie, pur in negativo, la solida immobilità che aveva reso i dipinti di Perugino tra i prediletti di Lorenzo de’ Medici e dell’élite fiorentina del momento. Si stanno ormai definendo alcune delle caratteristiche figurative che diventeranno poi stabili. Nell’affollarsi di richieste e viaggi la qualità resta alta; gli artisti della generazione successiva, come Gaudenzio Ferrari, sostano davanti alle opere di Pietro nei loro viaggi-studio e vi tornano a meditare quando possono. Qualcuno ne subisce il fascino, altri ne copiano passivamente dei brani.
Intanto Perugino resta aperto alle influenze: assimila le qualità tonali e atmosferiche della pittura veneziana durante i due soggiorni in laguna, mentre a Firenze guarda ai più giovani. Inventa nuove composizioni che diventano dei modelli ed è grandissimo nei ritratti ma inevitabilmente, per stare al passo con le richieste, la bottega s’affolla d’aiuti, i tempi si stringono e il riciclo dei cartoni – come nelle bellissime simmetrie, quasi dei balletti, del Collegio del Cambio, 1498-1500 – diventa un marchio di fabbrica. Vasari riporta che «aveva tralasciato il buon modo dell’operare o per avarizia o per non perder tempo». Così, in breve com’è cresciuta, la fama si disperde. La sua pittura si considera superata, come il simbolo di un mondo che non c’è più, tanto che Michelangelo, ricordandolo in pubblico, potrà dire «ch’egli era goffo nell’arte».
La mostra della GNU si sofferma un attimo prima della parabola discendente, chiudendosi idealmente sull’ultimo incarico importante del maestro per la propria città, lo Sposalizio della Vergine del Museo di Caen, che entra solennemente nella cappella di San Giuseppe della cattedrale di Perugia nello stesso anno, il 1504, in cui Raffaello firma la tavola di identico soggetto per San Francesco a Città di Castello. Con un omaggio smarcato l’ex allievo dimostra di saper superare, e di gran lunga, il maestro. È un trapasso amaro e insieme luminoso e necessario, ma quanto deve avere imparato il giovane Sanzio dal suo vecchio mentore, così abile nella definizione del proprio mito, ma anche nella gestione della bottega, di grandi imprese e dei propri affari…