Quell’animalità da cui imparare
ITINERARI CRITICI «Da un cavallo all’altro», un libro di Bartabas pubblicato dalla casa editrice aretina More than a Horse. Tra memoria e biografia, un testo che ripercorre molte storie ma soprattutto l’amicizia tra specie. Le avventure di cavaliere e teatrante, ma anche di alcuni dei 143 equini partecipanti e protagonisti degli spettacoli del «Théâtre Zingaro» (dal nome di uno di quelli)
ITINERARI CRITICI «Da un cavallo all’altro», un libro di Bartabas pubblicato dalla casa editrice aretina More than a Horse. Tra memoria e biografia, un testo che ripercorre molte storie ma soprattutto l’amicizia tra specie. Le avventure di cavaliere e teatrante, ma anche di alcuni dei 143 equini partecipanti e protagonisti degli spettacoli del «Théâtre Zingaro» (dal nome di uno di quelli)
Non sono molte le specie animali che hanno intrecciato la loro scia evolutiva con quella umana: tra queste, il cavallo ha qualcosa di singolare. Si ritiene che i suoi più antichi antenati del genere Equus, circa 4 milioni d’anni fa, cominciarono ad emigrare dal continente americano verso l’euroasiatico. Le specie si differenziarono (Zebre, Asini, Emioni e Cavalli sono quelle viventi) e accadde che la linea evolutiva si estinse proprio nel continente di origine. I motivi furono principalmente climatici, ma pare che la comparsa di Homo sul continente americano (son 15mila anni), ne accelerò e decretò la fine, essendo per quelli solo cibo. In Eurasia, invece, mezzo milione di anni addietro comparve l’Equus ferus (selvatico), dalle cui centinaia di sottospecie spuntò per selezione, anche d’allevamento, quella caballus, che noi appunto riconosciamo tra i circa 300 tipi di cavallo oggi esistenti. Le prove della sovrapposizione degli spazi umani ed equini non vanno oltre i 6mila anni, il che significa che la domesticazione (reciproca) è piuttosto recente rispetto a volatili, gatti e cani, però c’è da credere che le due specie, se evolveranno, lo faranno insieme.
S’È PRESA la storia da lontano perché le vite, gli affetti e le gesta che racconta Bartabas, nome d’arte di Clément Marty, fanno parte della mappa delle nuove parentele tra specie animali. Da un cavallo all’altro (More than a Horse, pp. 317, euro 25, traduzione di Daniele Tinti, a cura di Giovanni Battista Tomassini) è un libro di memoria e biografia; di sé, delle sue avventure di cavaliere e teatrante, ma anche, anzi soprattutto di alcuni dei 143 cavalli protagonisti degli spettacoli del Théâtre Zingaro (dal nome di uno di quelli), la troupe di umani e cavalli trionfante in tanti spettacoli: l’ultimo Femmes Persanes, è dell’autunno scorso, il terzo di una serie nominata Cabaret de l’exile. Il «teatro equestre» è un linguaggio scenico di cui Bartabas è stato ideatore ed è il prodotto di una sfida di adattamento e collaborazione tra umano e cavallo; latamente sembra lavoro circense, anche l’arena su cui si svolge ne richiama l’ambiente, ma ogni spettacolo è una narrazione, una pièce che ha caratteristiche e durata diverse dal «numero» tipico del circo.
Il libro è un omaggio a questa relazione, ch’è tutt’altro che astratta o spersonalizzata.
OGNI CAVALLO, tutti i cavalli: «Con ciascuno di loro voglio rivivere ogni istante di ciò che abbiamo vissuto; voglio che si alzino ancora una volta e ballino ancora un poco. Sarà un carosello di morti viventi, l’ultimo giro di pista. Musica! Luce!». Così ci introduce in questo mondo di ricordi: l’incontro, le prime impressioni e reazioni, i mediatori e mercanti che li ha fatti incontrare, i viaggi, il lavoro, gli allenamenti, gli spettacoli, le gioie, le fatiche, i drammi, gli incidenti, i malanni, tutti i casi della vita, compresi gli abbandoni inevitabili, la morte. Horizont, Le Caravage, Zingaro, Micha Figa, Vinaigre, Quixote, Lautrec, Felix. Ogni nome un carattere, un temperamento, ciascuno porta specifiche abilità e predisposizioni, magari determinate debolezze e idiosincrasie. Bartabas le cerca, le individua, le studia, le interpreta, le utilizza infine per costruire la danza. Domina il cavallo, certo, ne finalizza il tempo, ma non tentenna a mettere il suo corpo nella più totale intimità con il partner; lo monta, gli parla, lo accarezza, lo cura e se serve gli dorme accanto. Nel suo racconto rievocativo Bartabas non cede mai alla favola, il cavallo non è figura esemplare da assimilare all’umano, rimane soggetto d’alterità, tramite di un’animalità da cui imparare.
BARTABAS HA STILE. La parola, il motto, la frase breve e incisiva del suo periodare restituisce il gesto dell’ostentare, quello con cui il presentatore volge e piega l’attenzione del pubblico e di chi legge. Qualche volta arriva una massima, qualche altra pare compiersi un destino, altre è lo svelamento a sorprendere. I quadri si aprono e chiudono in fretta, si sovrappongono le cronologie, molto spesso le vicende ritornano, è un grande mosaico di esperienze. Dice di sé: «Sono un traghettatore di esperienze, come quegli architetti, artigiani dello smisurato, che sapevano che per completare i propri capolavori sarebbero occorse più vite».
Vola alto Bartabas, punta alla gloria, a distinguersi, e all’interno della tradizione equestre cerca il modo per riuscire a dire la personalità del singolo cavallo e a dare forma ai propri sentimenti. E davvero, la sua preoccupazione sembra quella di trovare le parole per spiegare e far immaginare il rapporto tra «specie compagne», come le ha chiamate Donna Haraway nel Manifesto del 2003, che nel rapporto tra cani e persone vedeva l’indistinguibilià tra natura e cultura. Tanto che nel 2022, sempore per Gallimard, Bartabas ha pubblicato un altro racconto che dà voce all’antica sapienza del corvo parlante, Les cantiques du corbeau, ispirato dall’ambizioso progetto di raccontare dai primordi la reciprocità adattativa della specie umana con gli animali non umani.
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