Volti nel tempo di Phillip Prodger (Einaudi, PP. 240, euro 42, traduzione di Susanna Bourlot) non è soltanto una storia del ritratto fotografico ma un’interessante riflessione intorno al suo significato. Prodger è stato direttore del dipartimento di fotografia della National Portrait Gallery di Londra e dalla sua esperienza di curatore di musei e di storico dell’arte suggerisce un metodo possibile, tra i molti, per guardare, studiare e soprattutto selezionare opere da proporre al pubblico. Di alcune tenta una personale esegesi, di altre lascia l’interpretazione a chi guarda. Volti nel tempo si dispiega in otto saggi, suddivisi in otto capitoli e 255 immagini, che legano la ritrattistica al come, quando e perché continuiamo a interrogarci sulla collocazione dell’essere umano nel mondo, attraverso una superficie bidimensionale. Molti fotografi individuano le caratteristiche distintive di una persona, rivelando tratti che sembrano «veri» per il soggetto.

TUTTAVIA non si tratta di «identità» quanto di «immagine». È la stessa formula per cui lo scrittore «tormentato» diventa «maledetto», il terrorista neofascista «un pazzo». Nelle mani giuste – adeguate a questo tipo di ritratti – curatori o editor spregiudicati possono vendere con profitto, sostituire la verità con un successo programmato. Prodger ha prelevato dal dagherrotipo all’era digitale alcuni temi fondamentali. Per esempio, La ritrattistica e la ricerca dell’identità ricordano la fotografa Valérie Belin, e la sua Carol (2016). Carol è sia un ritratto che una natura morta, l’esplorazione psicologica «di una donna semi-anonima e insieme è un’esplorazione dei media e dei consumi in un’epoca di iper-abbondanza».

La ricerca dell’identità non trascura l’aspetto politico terapeutico di Jo Spence che – con il suo collaboratore Terry Dennett – allestisce una foto-teatro mostrando i seni in un ambiente urbano, disinnescando in questo modo l’intimità della rivelazione: sono malata! All’inizio degli anni Ottanta un cancro al seno non era soltanto una tragedia privata, minava profondamente l’identità sociale di una donna, e così era perlopiù taciuto. La domanda scritta con il pennarello sul seno sinistro di Spence, «Proprietà di Joe Spence?», restituiva a un’intera epoca un dubbio concreto che non poteva essere risolto. Nel capitolo Una fotografia per l’ora digitale, la scelta di Prodger ricade su Martin Parr che titola Death by selfie, una raccolta di fotografie riassemblata, realizzata da autori di selfie in India. Nel 2017 l’India ha avuto il primato mondiale di morti correlate ai selfie: «sessantotto persone sono morte mentre si scattavano un selfie». Il selfie, scatto divulgato per dichiarare al mondo: io sono qui! Lo stesso proclama del canto di un usignolo, proprio il selfie ha estinto definitivamente la nostra presenza, rimarcando il luogo turistico in nostra vece; proprio il selfie sembra dire: avrei voluto esserci, nonostante la mia assenza dalla realtà.

NEL «DE PICTURA», Leon Battista Alberti sostiene che la forza del ritratto fa vedere ai vivi, molti secoli dopo, coloro che sono morti, in modo che li si conosce, con grande onore per l’artista e piacere per chi guarda. La ritrattistica ha l’innata capacità di offrirci ogni minimo dettaglio dei corpi, ce li dona fissati nel contesto storico al quale sono stati condannati. I ritratti ci offrono l’appartenenza di classe, il contesto e la postura, quasi ci pare di comprendere il soggetto, persino le sue idee. I dettagli in un ritratto ci illudono che saremo capaci, solo osservando, di percepire la vulnerabilità non artefatta dell’essere vivente, ciò che non siamo disposti a concedere a una persona dal vivo.

Al tempo stesso, un ritratto, in modo contraddittorio, dichiara l’inconoscibilità altrui. L’altro rimane un mistero, il soggetto che ci sta di fronte più ancora dell’autore del ritratto. Se la fotografia è il segreto del fotografo nella ridondanza della restituzione dell’altro e se un ritratto è sia una collaborazione che una negoziazione, una danza tra fotografo predatore e soggetto che si ritrae, è vero che entrambi gli attori mirano soltanto a un risultato convincente, fosse anche, quale in effetti è, una recita vera.