Nelle sue raccolte precedenti Jean-Charles Vegliante realizzava un incontro ricco di tensione fra le due tradizioni poetiche del ‘900 a cui appartiene, per il suo bilinguismo e per la sua attività di traduttore; quella francese più propensa a una verticalità ermetica (per esempio in Char e Dupin) e quella italiana incline a una effusione narrativa come in Raboni. Ne scaturiva uno stile inconfondibile: narrazioni che si accendono in visionarietà improvvisa, lampi di immagini che conducono a straniati racconti.
Questo stile pienamente maturo lo ritroviamo nella prima sezione del nuovo libro (Incontri, seguito da altre Babeli, Interno poesia, pp. 200, euro 18). Poi però Vegliante va oltre e pone in stato di emergenza il suo stesso linguaggio. Le due sezioni successive proseguono con giochi estremi di significanti implosi – arabi, spagnoli francesi italiani tedeschi portoghesi – che però non hanno nulla di uno sterile avanguardismo; i suoni provengono da corpi vecchi, blateranti, sofferenti, minacciati e si capisce fino a che punto quella lingua disarticolata, come lalangue lacaniana, corrisponde all’esperienza di un ordine simbolico che implode – individuale e collettivo.

VOCE SOTTERRANEA precedente ad ogni articolazione, «nocturno nombre de la dea della langue», essa è in contatto col romorio sordo e confuso, coi movimenti muti del corpo, al di qua e insieme al di là del linguaggio, strato della lingua ancora vicina ai gorgoglii del grembo materno, rinvio a ciò che il corpo corrode e trascende. Se è vero, pensava Walter Benjamin, che al fondo delle lingue conosciute insiste l’appello di una voce comune e dimenticata, questo libro di Vegliante si sporge ad ascoltarne il suono. L’incontro babelico tra le lingue divise non avviene però all’insegna della restituzione dell’origine perduta, ma è dominato da cancellazioni e disfacimenti, da un presentimento di apocalisse, annunciato fin dalla prima poesia: «Siamo tutti sospesi sopra l’infero/disastro che minaccia e ci disfà./Ci disincanta». Il poeta segue una «morta scordata» e cioè dimenticata, ma anche con le corde rotte, incapaci di suono, disaccordata da se stessa: un seguire casuale e sbandato «tra le nuvole sui tetti di piombo il segnale/sicuro della fine».

La possibilità di rivoltarsi contro è ridotta; gli «scatti di tendini» in cui si annuncerebbe la ribellione restano ombre di azione. I sangui sognati, le utopie e i desideri, si estinguono in esili «gridolini», invece che vere grida. Siamo in uno stato di sospensione, in cui ciò che amiamo, «il corpo adorato» si disfa piuttosto che permetterci un incontro; e come ci risveglieremo da questo sonno inquietante? Ciò che ci attende, il non–ancora in questo tempo che non è più, è ignoto, è una vertigine che scava dietro le palpebre e sconvolge ogni riferimento, ogni rassicurante ordine simbolico, perché «un globo collassa e trascina con sé/i parassiti che tutto hanno succhiato», l’aria vibra «di gelo nero», «nel vorace tramonto che tutto cancella», voracità dell’accumulazione, dell’incremento illimitato della potenza, dello sfruttamento della terra e dei corpi.

LA POESIA REGISTRA lo stato dell’inconscio del collettivo come un sismografo, con le sue metafore ossessive: «Tutto è attesa della novità che distrugge», o anche: «Vers quel nouveau/verso qual nuovo/disastrato/désastreux/voyage». Siamo sospesi in un vuoto del tempo, un «tempo che rode», in cui «tutto va cadendo nel vuoto», e noi «stiamo sospesi nell’attesa della caduta». Questo essere in sospeso, Stillstand lo definiva Benjamin, è un’apocalisse dilatata, che non si manifesta in una crisi verticale e improvvisa, in un giudizio con trombe e angeli, ma in una lenta progressiva erosione, che tutto contribuisce a renderci inavvertibile; perché lo sforzo maggiore dei poteri dominanti del capitale non è volto a evitare la fine della terra, ma a renderla inconscia e inesorabile: «nada, vide effrayant vide/sotto ’l navigio tua tirant sur sa chaîne rugissant». È un «tempo sospeso come ceneri», e quest’ultima immagine rinvia a un trauma primario che ha determinato il vuoto attuale, ceneri dell’Europa, della Shoah e di Hiroshima, ceneri delle città distrutte dalla guerra, ceneri che sempre di nuovo avvelenano l’aria. A cosa possiamo affidarci? Solo ad «arsi azzurri», «l’abbaglio feroce nel frinire», alla voce dei sommersi che si dilata in «fiori vapore»: «Tradurre devi ancora per non far morire – la pianticella che comincia ad attecchire – incedere verso un cielo d’olla podrida – /con dignità sempre, che ne va della vida».