Quella virtù amica della giustizia e della convivenza
SCAFFALE «Clemenza», l'ultimo volume di Francesca Rigotti per Il Mulino
SCAFFALE «Clemenza», l'ultimo volume di Francesca Rigotti per Il Mulino
Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è l’esercizio più violento del potere. La prova di un mondo rassegnato in cui è impossibile misurare qualsiasi forma di clemenza. Eppure è stata la clemenza, questione antica, a portare nel mondo la sua storia di pace. L’Iliade, che molti – a cominciare da Simone Weil – hanno detto essere il poema della forza, principia e termina con una supplica. La bella nereide Teti che chiede a Zeus «di cambiare l’ordine delle cose», il Re Priamo che prega Achille di ricevere la salma di suo figlio Ettore. In entrambi i casi, quanto si cerca di ottenere, ha l’aspetto di una clemenza. Tolleranza che ad alcuni sarà apparsa innaturale e che altro non è che la forma più umana di una qualche giustizia. Riguardo questa clemenza, sulla sua origine e sul suo significato, si è interrogata la filosofa Francesca Rigotti, nel suo Clemenza (Il Mulino, pp. 136, euro 12).
DOVE ORIGINA? Cosa si intende con l’essere clementi? Possiamo o meno rifiutarne il gesto? Essere clementi, scrive Rigotti, non vuol dire essere buoni, né perdonare. Poiché la clemenza assolve, «spinge oltre la giustizia», la eccede. Prescrivendo una forma di giustizia, non coincide quasi mai con questa e, richiedendo una struttura di colpevolezza, non esprime (o non soltanto) l’esercizio del potere. C’è allora qualcosa di assoluto, capace di porre la clemenza a metà tra la gerarchia e la grazia, il perdono e la giustizia.
È il caso di Cinna e Augusto o di Giulio Cesare che, nel libretto per l’opera di Handel, afferma: «virtù dei grandi è perdonare le offese». Non rispecchia allora una forma di controllo, né è un vuoto moto di potere; è semmai un esempio: «virtù morale e pedagogica», per cui le parole che la costituiscono, come accade nel discorso tra Nestore e Agamennone, richiedono l’elaborazione di una forma dialogica al limite della finezza.
È Seneca, «il più grande teorico della clemenza», a essere anche l’artefice di una clemenza intesa come virtù umana, «disciplina dell’animo nella facoltà di castigare, delicatezza nello stabilire le pene nei confronti di un inferiore». Quando richiede la sensibilità supera l’espediente politico dell’uso nudo e crudo della forza e del potere, costituendosi, con grazia, come «dono che lega i beneficiari di essa al contraccambio». E ancora «non equivale a misericordia e pietà perché non mette in gioco il cuore e le passioni, bensì la testa e la ragione».
IN TAL SENSO – come la intende il precettore di Nerone – la clemenza diviene beneficium: ciò che «garantisce la fama» favorendo l’interesse comune, quanto permette a Cesare e ad Augusto di graziare i nemici ricevendo in cambio amicitia e fides. A soccorrerci è l’etimologia della parola clemenza, derivata dal greco klíno, che intende esprimere il «piegare su sé stesso», l’appoggiare, l’inclinarsi. Per Lucrezio (e prima ancora per Epicuro) è nella deviazione – klinamen – che si costituisce la natura delle cose, nello «scarto della verticalità». Come nella differenza tra «bufalo e locomotiva» la vita è tutta nella possibilità di «scartare di lato», di essere, cioè, soggetti liberi. È la naturale capacità di piegarsi a raccontare l’etimologia della parola clemenza.
QUELLA GIUSTIZIA assisa in trono che mostra, come nello Zeus dell’Hermitage, un ginocchio scoperto. Il simbolo greco di forza e generazione ma anche di ragione e clemenza. È forse tutta contenuta nell’immagine di quel dio, nel suo ginocchio scoperto, la possibilità di flettersi, di perdonare agendo per «rettitudine senza rinunciare alla giustizia», affermando la vita. È l’indulgenza della strada da fare, l’intelligenza di chinarsi verso un figlio o un nemico con la stessa clemente grazia materna. «Abbassarsi alle fragilità degli altri», come chiede Papa Francesco, ascoltare, disposti a piegarsi, chinati ai piedi dei condannati.
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