Quelle sere posso dire di esserci stato. E di avere cominciato a capire non tanto di cosa si parlava o si leggeva, ma di cosa si viveva nello spazio teatrale richiesto da quel certo tipo di poesia: sperimentazione, avanguardia, performance. Per arrivare a Parma, ero stato costretto a percorrere l’antica via Emilia fra due muri compatti di neve, perché in quelle sere comprese fra il 14 e il 16 febbraio del 1986 si manifestò uno degli ultimi inverni totali che mi sia capitato di vivere.

Poco più che trentenne, sospeso fra una pulsione istintiva per i libri dell’ultimo Montale, di Sereni, di Giudici; e un’educazione teorica che aveva in Guido Guglielmi e Niva Lorenzini i maestri universitari, avevo capito già da un po’ che la pratica assieme critica e autoriale della poesia prevedeva l’accettazione preliminare di princìpi di contraddizione, di antitesi e di lotta con un’inerzia sempre più accentuata del destino pubblico della letteratura. Per di più, stavo occupandomi per il Mulino dei Taccuini inediti di F.T. Marinetti e mi era già saltata agli occhi la contraddizione fra il sospetto di fascismo che aleggiava sul movimento e i princìpi invece avanzatissimi che erano espressi nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, in quello del Teatro di varietà e nell’idea dell’opera d’arte totale.

Grazie all’organizzazione e alla regia di Daniela Rossi, di cui da qualche tempo ero amico, si svolse in quelle sere presso il Teatro Due sul Lungoparma il 4° Festival internazionale di poesia: e io ebbi l’occasione di ascoltare l’Adriano Spatola esplosivo di Un deux trois, un Corrado Costa coinvolto con Nanni Balestrini in un’improvvisazione da crooner completamente straniati su alcuni brani della Signorina Richmond, un’Amelia Rosselli portatrice di estraneità sussurrata e lacerante e soprattutto una Patrizia Vicinelli impegnata nella prosa narrativa e fluida di Messmer, un’opera ancora in progress (l’avrebbe finita solo due anni dopo), connotata da un uso sistematico dello stile indiretto libero.

Va da sé che fu proprio la lettura di Patrizia a travolgere la mia cognizione ancora molto ingessata della poesia e quando – ammirato – mi avvicinai per dirle del mio coinvolgimento molto prima fisiologico che intellettuale, lei (che era già molto segnata, nel corpo) mi guardò con i suoi occhi limpidissimi a acuti e mi disse: «Dai, andiamo a farci un pezzo di vino!». Da allora, intanto che sono passati quasi quarant’anni, ho fatto mia quella sua frase, ma la introduco solo con persone davvero empatiche, come un omaggio alla storia di Patrizia, della quale non appena rientrato a casa divorai il poema Non sempre ricordano, pubblicato da Daniela Rossi per le belle edizioni di Aelia Laelia in quello stesso ’86.

A ripensare adesso all’impatto non solo letterario ma assieme emotivo e gnoseologico di quelle serate d’eccezione, vien da notare come – a parte Balestrini – tutti gli altri protagonisti si sono ritrovati a sovrapporre corpo e scrittura e la scrittura – una sorta di superficie assimilabile a quella di un oceano – ha portato in sé una profondità tanto cangiante e magmatica, tanto opposta alla vita quanto portata all’immersione nel sogno e nell’abisso da richiedere il sacrificio estremo della loro stessa salute fisica.

Erano personalità poetiche vocate – com’è stato detto – al transfert più rischioso, quello che prevede il baratto dei versi con il corpo. E vien subito da chiamare in causa, per quella parte lì dell’avanguardia, il progetto di rifarsi al surrealismo più estremo, coinvolgendo in ciò anche un Giorgio Celli e soprattutto il più immaginifico dei poeti della Neoavanguardia, Antonio Porta, morto anche lui poco dopo, nel fatidico 1989, a 54 anni. La Vicinelli era già molto provata in quelle sere dell’86, la rividi qualche volta a Bologna, dove morì a meno di 48 anni, il 9 gennaio del ’91.

Tuttavia, in contrasto con diverse altre voci poetiche, sentinelle magari di una tradizione ancora tutta lineare e libresca, presto consegnate all’indifferenziato del «tutti poeti» che è proprio del nostro scorcio d’epoca, alcuni di questi sacrificati giovani a una poesia in certo modo costretta ad annodare scrittura e vita sono poi stati ripagati da un’attenzione e da una cura editoriali inusitate. E talora perfino eccessive, in chiave economica, poiché dedicate a voci poetiche programmaticamente marginali rispetto al mainstream delle case editrici, dei premi, dei festival più in evidenza. Si pensi soltanto all’attenzione editoriale che ha coinvolto il mentore (con Aldo Braibanti) di Patrizia, Emilio Villa: un’attenzione culminata nel magnifico volume-catalogo Emilio Villa poeta e scrittore, curato nel 2008 per Mazzotta da un protagonista della nostra arte contemporanea come Claudio Parmiggiani. Ma si pensi anche all’opera poetica di Corrado Costa, èdita da Argolibri in due volumi nel ’19 e nel ’21.

Allo stesso modo, questo recente La nott’e’l giorno che raggruppa l’opera poetica della Vicinelli ancora per Argolibri (avvalendosi dell’attenta e acuta curatela di Roberta Bisogno, autrice del saggio introduttivo, e di Fabio Orecchini), con la sua data «gennaio 2024» non fa che venir dopo altri due fondamentali opera omnia quali l’archetipico Opere, curato da Renato Pedio per Scheiwiller nel ’94; e l’onnicomprensivo Non sempre ricordano. Poesia Prosa Performance, curato per Le Lettere nel 2009 da Cecilia Bello Minciacchi, con un saggio prezioso di Niva Lorenzini e un’antologia multimediale di Daniela Rossi. Vi si allineano le opere latamente letterarie dell’autrice bolognese, che era una sperimentatrice inesausta di forme: i generi non li considerava certo dei vettori autonomi di senso, ma al massimo dei contenitori di una vocalità espansa, piena di variazioni e di una polifonia intonativa che può far sì che la prosa di Messmer sia più «musicale» (non «melodica», mai) dei versi spezzati del «poema epico» Non sempre ricordano (un capolavoro autentico della poesia europea di secondo Novecento), ove a giudizio di Vito Bonito «la pagina diventa uno spazio scenico in cui viene resa all’occhio una sorta di oralità narrante che intreccia modulazioni e contrasti tonali, volumi sonori e spaesamento interiore».

Sempre, nella scrittura-pronuncia della Vicinelli, si saldano la dimensione iconica della lettera (che assurge a dominante nei suoi numerosi lavori di poesia visiva, esposti in molte prestigiose gallerie nazionali e internazionali) e quella acustica del testo da scandire ad alta voce, culminante nel capolavoro à, a, A (1967). Questa ricchezza bibliografica, che ci permette di leggere l’opera della Vicinelli in piena sicurezza filologica e con l’ausilio di ottimi strumenti critici, deriva dal fatto che – di là dalla deriva esistenziale ed esperienziale che ne caratterizzò la vita – la sua vicenda creativa è passata per i luoghi eletti della formidabile stagione artistica fra gli anni sessanta e settanta, forse l’unica in cui l’ambiente letterario italiano ha sperimentato quella «società stretta», coesa, la cui assenza ancora nel primo quarto dell’Ottocento lamentava Leopardi.

Patrizia Vicinelli non è stata mai un’autrice marginale, piuttosto una sperimentatrice radicale, capace di collocarsi al centro dei fenomeni più interessanti del suo tempo e del suo ambiente: ha collaborato infatti con le migliori riviste dell’epoca, da «Ex» a «Quindici», da «Che fare» a «Marcatré» e infine ad «Alfabeta»; ha aderito ancora ventitreenne al Gruppo 63, al convegno della Spezia; ha lavorato con il cinema, la musica e il teatro più intelligentemente sperimentali; e non a caso La nott’e’l giorno si conclude su quell’altro capolavoro in versi che è I fondamenti dell’essere (1985-’87), una cosmogonia deprivata della mistica dell’origine.

In chiusura, si devono ricordare due elementi che definiscono l’attualità di Patrizia Vicinelli: questa dolorosa e mortale consustanziazione di corpo (ovviamente femminile, in tempi di nascita della visione femminista anche in letteratura) può essere una delle concause del primato sempre più evidente nella realtà odierna delle scritture poetiche al femminile; e a ciò si aggiunga la constatazione sempre più evidente che la poesia oggi funziona nelle società occidentali molto più e molto prima nella sua oralità performativa che nella forma scritta e libresca cui da un paio di secoli eravamo assuefatti.