È una domenica mattina d’inverno a Riga, capitale della Repubblica socialista sovietica di Lettonia. In un’alba gelida dalle tinte rosacee, un vecchio indugia sul bordo di un canale. Ai suoi piedi, in un cesto coperto da uno scialle di lana, dormono quattro cuccioli di cane. L’uomo spera di venderli al mercato coperto, al di sopra dei cui padiglioni ora spunta il sole. Due cuccioli si svegliano e, fuori dal cesto, scorrazzano nella neve, mentre lui cerca di afferrarli «con quell’impegno assoluto di cui sono capaci solo i bambini e gli anziani». «Diavoli neri» li chiama il vecchio «bruscamente, senza rabbia», prima di riprenderli con sé e recarsi al mercato mosso dalla fame ridestata dagli effluvi di salsicce e panzerotti.

INIZIA COSÌ L’uomo ha bisogno del cane, un romanzo breve di Regina Ezera (1930-2002) curato per FinisTerrae da Margherita Carbonaro, già affermata traduttrice di letteratura tedesca e oggi dedita a quell’area baltica (pp. 133, euro 14).
Di Regina Šamreto in arte Ezera, plurilingue di nascita e considerata la «gran dama» della letteratura lettone, la stessa Carbonaro nel 2019 aveva già tradotto per Iperborea Il pozzo, che mezzo secolo fa consacrò la scrittrice in un paese dove la censura realsocialista si sarebbe sempre limitata a rimproverarle un certo psicologismo – forse lo stesso che, nella forma di una mite ma desta sensibilità, traspare dalle citazioni più sopra. Pure è un fatto che tra le doti maggiori di Ezera vi è una facoltà d’immersione nella vita, nella sua molteplicità e nelle sfumature relazionali che si traduce in tavolozza stilistica e abilità contrappuntistiche.

PER TORNARE A QUELL’ALBA d’inverno: si apprezzano la ricchezza sensoriale delle descrizioni, l’intensità conferita ai dettagli e una certa insistenza sull’«entusiasmo» che, nella semplicità delle cose, anima facilmente le creature, persone o cani non importa. Le stesse donne che al mercato si dispongono di buon animo a sorvegliare i cuccioli finché il vecchio si concede una prima colazione sono poi quelle che, quando il primo compratore del giorno, un ragazzo con la chitarra, accompagna con «qualcosa di meridionale e focoso» l’elogio che l’anziano fa della madre dei cuccioli, si lasciano trasportare dalla musica in un’allegria spontanea, che sembra parlarci da un mondo più umano. Gusts poi, questo il nome del giovane, è solo il primo della serie: entro fine giornata, prima di ritrarsi finalmente nel tepore della propria dimora in un villaggio sulla Daugava – ed è innegabile che il racconto suggestioni anche noi a desiderare che un grog alla vodka ci scaldi lo stomaco – il vecchio avrà ceduto gli altri tre cuccioli ad altrettanti acquirenti: tre studentesse che ne faranno un regalo di compleanno per un compagno di corso, un ruvido alcolista «poco adatto all’alto compito di essere il padrone e l’amico di un cane» ma che promette di donarlo all’amante cameriera, e un ragazzino dallo sguardo incantato che otterrà l’ultimo in cambio di pochi copechi e un vaso di cavoli marinati.
È a questi nuovi padroncini e alle conseguenze dell’irruzione dei nuovi arrivati nelle loro vite che sono dedicati gli altri quattro capitoli del libro. La forma è dunque quella del romanzo per racconti che si irradia da un unico punto di giunzione esistenziale, dove poi i singoli percorsi di ognuno aprono ad altrettante variazioni su un tema comune: quello di un dolore impuro, come si legge nella postfazione, sempre adulterato da un’euforia alcolica o da un’incrollabile disposizione a tornare a illudersi.

LA PENNA DI EZERA è sovrana nel condurre con un senso lieve del comico le frizioni tra i personaggi, le loro attese e malinconie, la solitudine che fonda il loro cercarsi o il cercare in un cane una consolazione non sempre cosciente, mentre sottotraccia la vita in quanto bíos e legame affettivo è sempre attraversata dalla possibilità della sua negazione – e qui è la composizione a farsi carico dell’effetto poetico, instillando in chi legge il riflesso di timori e desideri sempre solo allusi, mai enfatizzati, come a ricordarci che nessuna perdita, alla lunga, è soltanto lutto.
Del resto era così fin dal principio: quando il vecchio rientra al crepuscolo, la madre dei cuccioli, Gracija, è confrontata con la loro assenza. Per un po’ tocca anche a lei la sua quota di pena, finché non prevale l’istinto a nutrirsi: perché «anche il cuore di un cane ha una misura nel dolore… il bicchiere si può riempire solo fino al bordo, e non di più, perché il resto trabocca e scorre via».