Tra le vittime della guerra scatenata da Putin va certamente annoverata anche la ricerca scientifica. In Ucraina, un istituto di ricerca su quattro ha subito danni a causa delle bombe russe. Quattro centri di ricerca sono stati rasi al suolo: tra questi, l’Istituto di Fisica e Tecnologia di Kharkiv dove lavorò anche il leggendario fisico Lev Landau e il telescopio del vicino Istituto di Radioastronomia, uno dei più grandi al mondo nel suo genere. Dei 60.000 ricercatori attivi prima della guerra, si calcola che circa 6.000 abbiano cercato riparo all’estero. Gli altri in molti casi hanno dovuto sospendere le ricerche per improvvisarsi soldati. Circa il 50% del finanziamento per la ricerca ucraina è attualmente deviato verso il settore militare.

MA ANCHE IN OCCIDENTE i ricercatori hanno dovuto fare i conti con l’invasione dell’Ucraina, malgrado sia avvenuta a migliaia di chilometri di distanza dai loro laboratori. Le lacerazioni che la guerra guerreggiata ha creato in dodici mesi superano di gran lunga quelle provocate da oltre quarant’anni di Guerra Fredda. L’effetto è doppio e paradossale. Da un lato appare tramontata la cosiddetta «diplomazia scientifica», cioè il diritto di scienziati appartenenti a blocchi in conflitto tra loro a mantenere un canale di dialogo con il nemico. Il caso più famoso del ‘900 fu quello del movimento pacifista Pugwash, a cui partecipavano scienziati di entrambi i blocchi, che vinse il Nobel per la pace nel 1995. Nonostante le apparenze, i governi tolleravano, se non incoraggiavano, questi contatti da cui entrambe le parti potevano trarre beneficio.

OGGI, INVECE, il mondo della ricerca non viene più considerato un territorio neutro. Le sanzioni anti-Putin impegnano anche la comunità scientifica occidentale a rompere con i colleghi russi e in molti casi questo è avvenuto dopo le prime bombe. Salvo accorgersi, a guerra ormai avviata, che è più facile fare a meno del petrolio russo che del loro apparato di ricerca. Perciò, la collaborazione nei progetti scientifico-tecnologici tra Russia e Occidente oggi prosegue proprio nei settori più ambiziosi e strategici: la fisica delle alte energie, lo spazio e la ricerca nucleare, la cosiddetta Big Science che coinvolge migliaia di scienziati sparsi per il mondo e richiede una pianificazione su un orizzonte pluridecennale.

Prendiamo l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare di Ginevra, universalmente nota come Cern. Nell’immediatezza dell’invasione, il Cern è sembrato prendere una decisione netta: stop a ogni collaborazione con la Russia. Un taglio doloroso per un centro di ricerca nato all’indomani della Seconda guerra mondiale per dimostrare che la fisica nucleare poteva aiutare la cooperazione tra Paesi diversi, e non solo a confezionare bombe atomiche. La direttrice Fabiola Gianotti ha dovuto presto riconoscere che le collaborazioni con quasi mille fisici russi, l’8% del personale del Cern, non potevano fermarsi da un giorno all’altro. Dunque, ha deciso di mantenere in piedi i progetti comuni già avviati con Mosca per altri due anni. Poi, a dicembre del 2024, l’accordo di cooperazione Cern-Russia arriverà a scadenza naturale e si vedrà.

STABILITO (si fa per dire) il futuro, al Cern ci hanno poi messo un anno per prendere una decisione apparentemente banale sul presente: come firmare le pubblicazioni in cui compaiono anche gli scienziati russi? Da un lato, il loro contributo va oggettivamente riconosciuto. Dall’altro, nel 2023 mettere nero su bianco la collaborazione tra gli istituti di ricerca occidentali e quelli russi qualche imbarazzo lo crea. Per un anno il Cern ha scelto di non scegliere e tutte le pubblicazioni del periodo successivo all’invasione dell’Ucraina sono state messe in stand-by. Sebbene siano pubblicate su Internet, non sono state ancora inviate per una valutazione alle varie riviste del settore, le uniche autorizzate a sancire l’avvenuta pubblicazione di uno studio. Questo purgatorio – burocratico solo in apparenza – non poteva durare per sempre. Dalla pubblicazione delle ricerche dipendono le carriere degli scienziati e i finanziamenti per le loro ricerche. Pochi, soprattutto tra i giovani, possono permettersi di rinunciare a un anno di articoli scientifici. Alla fine, la soluzione di compromesso scelta dalla direzione del Cern il 13 febbraio scorso è di non occultare il nome degli scienziati russi nelle pubblicazioni, omettendo però i loro istituti di provenienza: un equilibrismo che ha fatto storcere il naso a molti.

ALTRI PROGRAMMI di ricerca hanno fatto come se in Ucraina nulla fosse accaduto. A Iter, il reattore sperimentale per la fusione nucleare in costruzione a Cadarache (Francia) dove collaborano tutte le grandi potenze industriali del mondo (compresi Russia, Cina, India e Giappone), il 10 febbraio scorso è arrivato l’enorme magnete a superconduttori costruito dal partner russo Rosatom: una bobina da 9 metri di diametro per 200 tonnellate di peso che dovrà comprimere il plasma in cui avverrà la fusione. Trasportarlo via terra e via mare da San Pietroburgo al sud della Francia ha richiesto tre mesi di viaggio. «Siamo felici che la Russia abbia completato con successo la produzione e la fornitura del magnete» ha detto l’italiano Pietro Barabaschi, attuale direttore generale di Iter.

TUTTAVIA, sull’evento è stata messa la sordina perché una collaborazione così sostanziosa col nemico potrebbe creare più di un imbarazzo. Tanto più in un settore caldissimo come la fusione che potrebbe sconvolgere gli equilibri globali basati sull’attuale dipendenza energetica dalle fonti fossili. D’altronde per gli scienziati della fusione non c’erano alternative, in quanto la Russia è uno dei pochi Paesi in grado di produrre questi apparati di altissima tecnologia. Sostituire la sua partnership avrebbe causato ritardi notevoli: solo per progettare e realizzare il magnete consegnato a febbraio, Rosatom ha impiegato dodici anni.

Anche nello spazio Occidente e Russia sono costretti a collaborare. Gli astronauti occidentali e i cosmonauti russi che si alternano sulla Stazione Spaziale Internazionale (Iss) lavorano a stretto contatto e condividono i veicoli con cui salire e scendere dall’orbita. Vivere sulla Stazione da «separati in casa» sarebbe impossibile, vista l’interdipendenza sviluppata in trent’anni di collaborazione.

LA STAZIONE, per altro, è in una fase assai delicata. Per molto tempo, astronauti e cosmonauti hanno avuto a disposizione solo la navetta russa Soyuz per salire e scendere dalla Iss. Quella «attraccata» alla Stazione risulta però ammaccata, probabilmente a causa dell’urto con un detrito spaziale. In attesa di sostituirla – un nuovo veicolo è partito venerdì e dovrebbe arrivare oggi alla Stazione -, l’unica navetta a disposizione è quella prodotta dalla SpaceX di Elon Musk, a cui anche i russi potrebbero dover ricorrere in caso di emergenza. Le chance di sopravvivenza di russi e occidentali in orbita dipendono dunque dalla loro capacità di cooperare. Nessuno, in un frangente così delicato, ha voglia di farsi la guerra. Ma a differenza della «diplomazia scientifica», questa coabitazione forzata difficilmente migliorerà le relazioni tra il Cremlino e le cancellerie occidentali.