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Quella reale (23-25%) misura il fallimento del mercato

Quella reale (23-25%) misura il fallimento del mercato

Disoccupazione Dopo il crollo del Pil pari al 9% nel 2020, la crescita del 6% per il 2021 è una frazione di quella che sarebbe stata possibile

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 6 agosto 2021

L’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), l’organismo terzo di valutazione (validazione) del quadro macroeconomico del Documento di Economia e Finanza del governo, il 3 agosto ha presentato la “Nota sulla congiuntura di agosto 2021”. Il Governo e gran parte dell’opinione pubblica ha sottolineato che la crescita del PIL sarebbe prossima al 6%.

Ovviamente un risultato importante, ma sopravvalutato. Dopo il crollo del PIL pari al 9% nel 2020, la crescita del 6% per il 2021 è una frazione di quella che sarebbe stata possibile. Comprendiamo il sostegno a Draghi, ma la misura è un buon metodo per valutare la realtà. L’UPB ha però fatto un altro e a nostro parere più importante lavoro: in qualche misura ha registrato il tasso di disoccupazione reale del Paese. Nessuno ha discusso questa importante e fondamentale informazione.

Nel report si legge: “Tale evoluzione rifletterebbe l’estrema gradualità del processo di aggiustamento del mercato del lavoro, contrassegnato da un ampio grado di sotto-utilizzo del fattore lavoro (pari a circa un quarto della forza lavoro estesa sulla base dei dati Eurostat); soprattutto tra le persone disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro”. Cosa significa? Il tasso di disoccupazione reale del Paese si colloca tra il 25-23% della potenziale forza lavoro. Un bel guaio. L’informazione non è nuova agli economisti perbene. Come ex tecnici della Commissione Industria di Senato e Camera tra il 1996-2000 avevamo sottolineato il quesito. Sebbene fosse il tempo delle politiche protese a traguardare l’euro, l’intelligenza era ancora un tratto distintivo dei ministri (Ciampi per chi non avesse ancora compreso).

Altri hanno lavorato sul tasso di disoccupazione reale e spesso “derisi” per il metodo e l’approccio utilizzato; pensiamo ad A. Fumagalli in “Lavoro male comune”, R. Sanna durate alcune comunicazioni come responsabile economico CGIL, R. Romano come economista CGIL Lombardia mai preso sul serio. Ora l’UPB offre una fotografia che dovrebbe essere tenuta sulla scrivania da tutti gli economisti. Ma come è stato possibile che il tasso di disoccupazione variasse in questo modo nella statistica ufficiale?

Siamo uomini del secolo scorso. Ma frugando nei cassetti della nostra memoria, ricordiamo che nella seconda metà degli anni Sessanta un interessante dibattito apertosi sulla base di un saggio di Giuseppe De Meo, l’allora presidente dell’Istat, proprio su come l’Istat misurava la disoccupazione, così come ricordiamo gli interventi di Giorgio La Malfa, di Marcello De Cecco, di Luca Meldolesi e di Enrico Pugliese. La discussione non è pari a quel livello, non ci sono gli stessi interlocutori, ma i termini della discussione sono identici.

Nel tempo, anni Novanta, l’Istat introdusse una definizione di disoccupazione ancor più stretta, intendendo per tale un soggetto che aveva compiuto concrete azioni di ricerca di lavoro nella settimana di riferimento dell’indagine. Di colpo la disoccupazione in meridione si dimezzò. E che dire del fatto che tra gli occupati l’Istat considerava i lavoratori in mobilità ed in cassaintegrati a zero ore? Il criterio di misurazione della disoccupazione è molto più vicino a quello sottolineato dall’UPB (unica osservazione non inseriremmo i sottoccupati, cioè una categoria un po’ viscida).

Poi abbiamo i detrattori, cioè quelli che pensano solo al tasso naturale di disoccupazione, cioè a un concetto economico sviluppato da Milton Friedman e Edmund Phelps negli anni Sessanta. Esso rappresenta l’ipotetico tasso di disoccupazione coerente con il livello potenziale della produzione aggregata e del livello ottimale dei prezzi, disconoscendo che per definizione l’innovazione riduce i prezzi.

Forse è giunto il momento per i riformisti presi sul serio, così come i rappresentanti delle forze sociali, ricordassero ogni volta quale sia veramente il tasso di disoccupazione reale e diventasse la misura dei fallimenti del mercato. Avere un terzo della potenziale forza lavoro non al lavoro è un problema di politica economica molto serio che non può essere aggirato da tecniche statistiche sebbene certificate a livello internazionale.

La domanda che si dovrebbe fare al Governo così come alle istituzioni del capitale potrebbe essere: come intendete ridurre il tasso di disoccupazione reale ormai stabilmente al di sopra del 20%?

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